Dai misteri antichi
ai recenti sistemi di lavorazione dei prodotti della terra nei "
palmenti " e nei frantoi: tutta la civiltà salentina passa
attraverso l'acqua e la terra, e la storia del lavoro dell'uomo, in quest'area,
è la storia della lotta con la campagna riarsa e delle colture
della vite e dell'olivo, piante aride e stupende.
Non si può
pretendere, per quanta fantasia si metta, che possa trattarsi del più
remoto sistema irriguo del Salento. Ma il mistero rimane, pressoché
intatto, e la leggenda non poteva che riaffiorarvi, con l'alone popolare
che riverbera fino ai nostri giorni, con le suggestioni che affascinano
anche gli uomini della nostra generazione, nell'età della ragione
assoluta. Parliamo di sessantotto pozzi di San Pantaleo, le sessantotto
bocche che si aprono nel territorio di Martignano Salentino. La leggenda
ricorrente vuole che il Santo, protettore del paese, perseguitato dai
nemici, si fosse nascosto in quei pozzi, riemergendo dai diversi boccali.
Questo straordinario sistema idraulico (unico nel mondo, con bocche
e pance indipendenti) è a sud-ovest del centro abitato, su un'area
di circa mille metri quadrati. Ciascun pozzo ha una profondità
di tre metri. All'origine, dovevano essere molti di più, forse
un centinaio. Una parte fu distrutta per l'apertura di una strada d'accesso
al paese. La fantasia popolare ritiene che i pozzi non siano misurabili
(come le colonne della cripta della Cattedrale di Otranto), e che la
loro conta dia risultati inevitabilmente discordi. Ha scritto Raffaele
Congedo che il metodo costruttivo dei pozzi è singolare: posti
a distanza ravvicinatissima fra di loro, hanno forma di imbuto capovolto,
completamente foderati di pietrame informe calcareo permeabile, cementato
con terra bolosa, attraverso il quale filtrano abbondanti acque freatiche,
attinte dalla popolazione, e celebri per salubrità, purezza e
bontà. Nella località - sostiene Congedo - si svolge ogni
anno un rito religioso, durante la festa del protettore. L'insolito
paesaggio suscita interesse e attrae. L'acqua: l'oro del Salento di
tutti i tempi. Tutta la civiltà della penisola salentina passa
attraverso l'acqua e la terra, e la storia del lavoro dell'uomo, qui,
è la storia della lotta con la campagna riarsa e del clima sitibondo,
del tufo bianco e delle colture della vite e dell'olivo, piante aride
e stupende. E in quest'area martignanese l'acqua venne fuori da una
miniera di cento imbocchi, prezioso elemento di vita per l'uomo e per
la terra, per le braccia dell'uomo e per l'industria primaria che quella
terra consentiva con i suoi prodotti.
Anche i monumenti megalitici per eccellenza, i dolmen e i menhir e le
stesse specchie possono direi qualcosa di interessante sull'acqua nascosta
nel ventre carsico del Salento, e ricercata accanitamente, fin dall'epoca
preistorica, dai nostri progenitori. Scrive infatti il Bourdoux (in
" Luce nelle tenebre ") , a proposito della ricerca idrica
con l'aiuto della radiestesia, che un celebre rabdomante ha potuto accertare,
in seguito a ricerche effettuate in Bretagna, che tra le varie ipotesi
che avvolgono menhir e dolmen si può validamente includere quella
che li ritiene stazioni di riferimento rivelanti la presenza di acqua
nel sottosuolo. Grande fu infatti la sorpresa del ricercatore, prosegue
Bourdoux, nel costatare che, in corrispondenza di quei monumenti megalitici,
la bacchetta del rabdomante o il pendolo radiestesico segnalavano sempre
l'acqua, e per di più, incroci di falde acquifere. I nostri progenitori
avevano dunque scoperto il modo di rilevare l'andamento delle acque
sotterranee. In particolare, per quel che riguarda gli spigoli più
lisci delle pietrefitte salentine, l'ingegner Pietro Zampa (nel libro
" Le meraviglie di una scienza nuova ") sostiene che sia,
no sempre rivolti "verso il vertice dell'angolo costituito dall'incrocio
di due correnti di acque sotterranee ".
Dai misteri alla realtà paleo-economica del Salento. Sappiamo
come i Messapi macinavano il grano: in una piccola pietra incavata al
centro, con una palla che aderiva all'incavo: si schiacciava a forza
di muscoli il grano, con il quale si faceva il pane. Si usarono gli
stessi sistemi, probabilmente, per la spremitura delle olive, mentre
quella dell'uva ha conservato a lungo le caratteristiche della pigiatura.
In "pile " di pietra, poi in tinozze di legno, infine nei
grandi tini di rovere. L'uso del torchio rappresentò la rivoluzione
copernicana nell'industria di trasformazione dei prodotti agricoli del
Salento. E certamente ai lasci muscolari dell'uomo furono in buona parte
sostituiti quelli degli animali da trazione. Fu una grande scoperta,
che come tutte le grandi scoperte avviò attività complementari.
Abbondavano un giorno, prima che si abbattessero forze distruttrici,
le querce, nella penisola salentina. E dai porti di Otranto e Gallipoli
partivano per tutte le rotte navi cariche di botti, costruite da sapienti
mani artigiane.
Botti vuote, e botti piene: di olio e di vino. Agricoltura, industria
di trasformazione e commercio avevano trovato un equilibrio pressoché
perfetto. E fu, quella, l'epoca d'oro della campagna di Terra d'Otranto.
I collegamenti marittimi giungevano fino alla lontana Marsiglia, e,
dall'altra parte, fino a Venezia: da questi scali, botti e prodotti
risalivano le vie dell'Europa, ambasciatori del lavoro e della civiltà
del Salento. Fu un'età anche lunga. Poi, la decadenza. Gli Angioini
avevano già frantumato le terre, e i latifondi finirono in mani
straniere in tutto il Sud. Gli Aragonesi avevano spolpato anche le ossa
del Sud: un'agricoltura di rapina inaridì fonti di reddito e
qualità di produzioni. La campagna divenne simbolo per eccellenza
di fame e di schiavitù fisica ed economica. Decaddero i commerci,
si perdettero gli sbocchi di mercato crebbe l'importanza strategica
dei porti di Brindisi e di Taranto, e di conseguenza furono offuscati
gli scali di Otranto e di Gallipoli. Il Salento rientrò nei secoli
più bui della sua storia, in un tunnel dal quale sarebbe rivenuto
fuori solo molto più tardi, in questa seconda metà del
nostro secolo. Con un'industria manifatturiera di piccole dimensioni,
sparsa e quasi dispersa. E con le vestigia della sua industria primaria,
archeologia vivente (gli aratri di legno per il tiro dei cavalli, i
traini per il trasporto, i torchi superstiti, le grandi botti rastremate
verso il basso); con terra e agricoltura sempre dominanti il paesaggio
economico e sociale. E con niente, neanche un museo minimo, che raccolga
le testimonianze di questa cronistoria: come se tra gli strumenti del
lavoro dei secoli scorsi e le macchine automatiche contemporanee non
ci fosse alcuna interrelazione; come se le memorie del passato avessero
generato un iniziale rapporto di odio-amore, e un successivo momento
di rimozione. Ma di quel passato, della nostra storia, non ci possiamo
liberare. L'abbiamo, com'è giusto, nella pelle.
|