§ Disperazione del Sud

Riemigreranno




B. M.



L'inversione di tendenza c'era stata, era nei fatti: e forse non sarebbe del tutto errato affermare che era nello stato di necessità. La nostra emigrazione, intendo dire quella meridionale, si era pressoché bloccata. Nessuno - o rarissime persone, che per lo più emigravano a colpo quasi sicuro - lasciava il proprio paese, niente più "treni della speranza " o " treni della disperazione ", secondo le definizioni classiche; non più valige di cartone rosso, bambini attaccati alle gambe di un padre alto, magro, coppola in testa, sul marciapiede d'arrivo di una qualsiasi stazione ferroviaria del Nord, come ci è capitato di vedere in una stupenda fotografia di qualche anno fa. La gente voleva restare dov'era nata. I problemi, avevano detto politici, sindacalisti, imprenditori che attingevano a piene mani nel denaro pubblico per investire (o far finta di investire) nelle regioni meridionali, i problemi vanno risolti nelle aree d'origine, lì va affrontato il discorso della industrializzazione, e quello della occupazione, e quello - in una parola -dello sviluppo economico e sociale. Avevamo assistito ad un vero e proprio tracollo dei dati statistici: non solo non si parte più per il Nord e per l'estero, ma addirittura si ritorna; e ora - dicevano sempre politici, sindacalisti e industriali sempre alle prese con finanziamenti pubblici - ora è necessario scoprire un modo di utilizzare questi elementi, questi emigrati di ritorno, che fuori hanno fatto esperienze interessanti, ce li hanno qualificati, e non possiamo permetterci il lusso di sprecare tanta ricchezza.
Perché tornavano? Perché i mercati del lavoro avevano superato il " livello di saturazione "; perché i primi ad essere licenziati, in un paese che comincia a risentire della crisi europea, sono proprio gli immigrati, magari selezionandoli: prima gli algerini e i tunisini e i marocchini, poi i greci e i turchi, poi - insieme - gli italiani e gli jugoslavi: è una metodologia sperimentata prima in Francia, poi nella Repubblica Federale Tedesca. La Germania dell'Ovest, per di più, per mantenere alto il potere d'acquisto del marco, per tener testa contemporaneamente alla concorrenza estera, e per porsi alla guida dell'economia dell'Europa comunitaria, ha scelto la via di una disoccupazione interna stabile: comprime il mercato del lavoro, indennizzando i disoccupati (quelli tedeschi), e mandando a casa i gastarbeiter, gli " ospiti lavoratori ", secondo un palese eufemismo che, oltre tutto, contraddice al diritto di libertà di movimento dei lavoratori all'interno dell'area della Cee. A questo livello, ciascuno sceglie le politiche e le economie politiche che ritiene opportuno, e si fa i conti in tasca. I nostri, più di tanto non possono dare. Gli emigrati (quelli della seconda generazione, dagli anni Sessanta in poi) stanno tornando. Con il minimo di pensione, o senza neanche questa: ed essendo da considerarsi non-anziani, dunque in grado di lavorare ancora, cercano lavoro. La loro richiesta si va così ad aggiungere a quella dei giovani disoccupati, con laurea o senza: un problema che si va aggravando di giorno in giorno. I bubboni sono già scoppiati in diverse aree, e quella di Napoli valga per tutte. Né vale il discorso di sistemi economico-politici diversi: gli incontri degli amministratori comunisti a Bologna alla fine di ottobre sono emblematici: i comunisti hanno ammesso che neanche i comportamenti marxisti sono riusciti a garantire l'occupazione e lo sviluppo, il fallimento è stato anzi più grave, poiché l'ideologia populista brandita demagogicamente come toccasana di tutti i problemi è stata solo una promessa di ricchezza mancata. Da qui, l'anarchia, le rivolte di piazza, gli abusi delle frange più violente, il malessere dei sindacati confederali che si vedono sfuggire di mano (a vantaggio degli autonomi) i lavoratori. E da qui, le " preoccupazioni " che cominciano ad essere espresse da chi ha responsabilità politica e amministrativa nelle metropoli e nelle aree industriali del " triangolo ". Proprio qualche settimana fa, i torinesi paventavano un " ritorno di fiamma " dei meridionali, vale a dire una nuova invasione di " disperati " del Sud, non tanto della portata che si registrò intorno agli anni Cinquanta, quando si profilò il pionierismo migratorio verso Torino, e in genere verso le cinture industriali piemontesi; quanto della portata gigantesca degli anni Sessanta, quando in media emigrava un meridionale ogni minuto primo, in direzione di Genova (ma qui in minor misura, si preferivano le fasce interne della Liguria, quelle dell'agricoltura specializzata); in direzione di Torino (dove la Fiat era un mito, e le ottomila industrie che producevano accessori per la Fiat avevano bisogno di manodopera a basso o a bassissimo costo, e i meridionali erano a portata di mano, pronti a lavorare anche dodici ore al giorno, con straordinari irrisori), e in direzione degli altri centri urbani del Piemonte, nei cui territori industria, agricoltura e commercio legato alle due attività erano perfettamente equilibrati, e dunque potevano assorbire nuovi addetti; e, infine, verso Milano, forse la più generosa delle metropoli del Nord, quella che si pose immediatamente il problema delle nuove strutture occorrenti per dare una sistemazione dignitosa agli immigrati, realizzando nel breve periodo beni civili e servizi sociali; e in direzione dei mercati tradizionali di assorbimento, all'estero: Cantoni svizzeri, Germania Federale, Francia, in misura minore Inghilterra, in misura di gran lunga inferiore Olanda e, dopo gli anni Cinquanta, Belgio.
Irrisolti i problemi delle regioni meridionali, restata un puro sogno l'applicazione della legge per l'occupazione giovanile, sgangherata l'azione della Cassa per il Mezzogiorno, e non meno sgangherata quella delle regioni (e dove sono andati a finire gli entusiasmi degli anni in cui tutti rifiutarono di considerare il Sud un'unica regione, con Sardegna e Sicilia a parte, come di fatto un'unica regione più le isole le considera l'Ocse, in nome di accanite politiche locali?), i problemi si affollano, e non si vede via d'uscita. A livello politico, ovviamente. Perché, a livello di iniziativa personale, disperata che si voglia, sta per ripetersi la storia di trenta e venti anni fa: riemergono le valige di cartone rosso, si va a vedere " dove schiara il giorno ", com'è stato scritto: si riemigra. Con questa differenza, rispetto alle prime esperienze: che allora si andava alla scoperta di un pezzo di pane, a qualsiasi costo, purché lo si trovasse, e tutti erano pronti a dare la pelle per quell'obiettivo minimo, vitale. Mentre oggi la coscienza civile e la dignità umana sono ben al di là della vecchia frontiera, un quarto di secolo non è passato inutilmente, e la richiesta dei propri diritti si pone un limite: dopo di che, come purtroppo insegna l'esperienza di quest'anno, uno dei più tragici dell'Italia contemporanea, dopo di che si fa violenza. Una violenza scaturita dalla disperazione, che non va confusa con l'altra, (anche se ugualmente sono condannabili), quella che vuole gettare il Paese ancora più in fondo al baratro, e non chiede lavoro, non reclama giustizia sociale, ma scrive la sua storia con i delitti, la firma con il sangue, è terrorismo, un cancro infantile, pericoloso e mortale, se non si estirpa con decisione e senza giustificazioni stoltamente pseudosociologiche. La violenza dei disoccupati, ripeto, è una disperazione che viene da lontano, e la si acquieta definitivamente creando posti di lavoro, costruendo case, esplicando una politica delle cose, una realpolitik che sembra, in questo Paese, quasi la scienza di un altro pianeta. Altrimenti, è il caos. Il futuro non ci lascia altre alternative.

Gli spettri di una volta

a.b.

Saranno daccapo in piazza. Incroceranno le braccia, come una volta, in attesa di qualcuno che li chiami a lavorare come giornalieri; o riprenderanno le vie del Nord, o quelle - meno agevoli, la crisi riguarda tutti - dell'estero. Ci eravamo illusi: avevamo pensato - e scritto - che quello dell'emigrazione era un discorso chiuso. Tant'è che tornavano. Quelli che, con un durissimo lavoro, in condizioni spesso disumane, avevano ridato prestigio al nostro Paese, e che con le loro rimesse avevano salvato da più di un disastro questa nostra incredibile economia, sospesa tra Stato e imprenditore, tra pubblico e privato, tra Marx e Keynes, come se per virtù taumaturgica si potessero conciliare ideologie e comportamenti politico-economici che sono nati solo per escludersi vicendevolmente, costoro dunque ritrovano, intatti, gli spettri di una volta: la miseria, la disoccupazione, il vuoto verticale al quale si ribellarono, abbandonando paesi e case, amici e vincoli di parentela, diretti verso l'ignoto.
Gli anni sono passati - tanti - inutilmente. All'" ésprit des choses ", alla concretezza dei nostri emigrati, che cosa possiamo contrapporre? Qual è il nostro bilancio da porre a confronto con il loro? Solo una spirale di nebbia, dalla quale non abbiamo saputo emergere, e nella quale, ora, non ci faremmo scrupolo di coinvolgere anche loro, che sono stati i migliori di tutti noi. Perché essi possono mettere davanti ai nostri occhi storie personali e collettive umane e anche altissime, e l'esperienza dell'anabasi. Mentre noi, al sicuro nelle nostre case, con la solidarietà locale attorno, ci siamo lasciati andare, colpevolmente: non abbiamo lavorato; o abbiamo finto di lavorare; o, infine, come le streghe di Machbet abbiamo lavorato solo a un'opera senza nome.


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