§ Redditi e consumi

Salento nel baratro




Lucio Tartaro



Esaminando gli ultimi dati disponibili, raccolti per tutte le province italiane dall'Unione delle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura, si rileva che l'arca leccese è sul livello delle zone più arretrate della penisola, quasi in fondo alla graduatoria del Mezzogiorno.

Gli ultimi dati raccolti dall'Unione Italiana delle Camere di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura hanno confermato una tendenza che ormai non poteva più sfuggire a nessuno: l'area salentina è precipitata quasi nel fondo della graduatoria nazionale, e in quella del Mezzogiorno, per quel che riguarda la distribuzione dei redditi e dei consumi. Queste le cifre: il reddito globale prodotto dal Salento nel 1976 è stato pari a 992 miliardi 758 milioni di lire; come dire, un milione, 315 e 900 lire per abitante. Fatta uguale a 100 la media italiana, la provincia salentina è poco più su della metà, con un indice pari al 56,7.
Non esiste una sola provincia settentrionale che sia al di sotto dell'indice 95 (che è il numero indice di Belluno; e inoltre: Padova 97,3; Venezia 97,1; Massa Carrara 98,4). Per rintracciare un indice intorno alla metà di quello medio nazionale, e dunque vicino al salentino, dobbiamo ricercarlo tra le province più arretrate del Mezzogiorno: Avellino, con il 55,5; Benevento, con il 58,8; poi, le tre province calabresi: Catanzaro, con il 56,4; Cosenza, con il 56 netto; Reggio Calabria con il 56,1; in Sardegna, Nuoro registra il 58,5; infine, in Sicilia, con il primato assoluto, Agrigento spicca con il 53,6. In ultima analisi, la provincia salentina, sotto il profilo dei redditi e dei consumi, è sestultima nella graduatoria delle novantanove province italiane.
Strangolato com'è in fondo alla penisola, con paesi dirimpettai tutt'altro che ricchi, lontano dalle grandi vie di comunicazione, inerte anche di fronte alle " autostrade dell'acqua ", cioè alle direttrici marittime mediterranee, il Salento paga lo scotto di problemi storici irrisolti e di ipotesi di sviluppo più recenti, e inattuate. Non è comodo essere inseriti in un contesto, qual è quello del Mezzogiorno, che rappresenta di fatto un'arcipelago in contrasto di interessi, di economie, di modelli di lavoro, di tendenze, di geopedologie. Dalla federazione di questi contrasti, è stato, scritto, è nato un continente, il Sud: povero, agricolo, montagnoso, isolato e colonizzato dalla più protetta economia del Nord.
Ponte proteso verso l'Africa e il Medio Oriente, la regione pugliese presenta una realtà economica as-sai composita: la Capitanata ha un'alta intensità agricola (barbabietola, cereali, semi da olio, ortofrutticoltura, viticoltura), che le consente di registrare il reddito complessivo più alto della Puglia; questo primato, Ira l'altro, è dovuto alla media di superfici agrarie che è tra le più alte del Mezzogiorno: il malaugurato latifondo, in altri termini, condannato dalla politica economica del dopoguerra, si è rivelato a tutti gli effetti, come si esprime la moderna - e più meditata - scienza economica, " superficie aziendale autosufficiente, con possibilità di sbocco di mercato ". Qui, dunque, un'agricoltura al passo con i tempi rende possibile occupazione e lavoro, produzioni a cicli continuati e strutture commerciali e produttive indotte. Dal canto suo, Bari ha un'articolata tessitura industriale, in massima parte manifatturiera, abbastanza equilibrata, ad alto indice di occupazione, servita da un porto che è testa di ponte per i paesi del Sud-Est, con una fiera campionaria che ha un suo prestigio e funzioni di livello europeo.

L'agricoltura dell'area conosce da tempo l'irrigazione, e sfugge ai rischi della monocoltura grazie all'abile intraprendenza degli operatori e degli addetti. Il discorso produttivo muta radicalmente nel sud della regione.

Gli stabilimenti dell'Italsider di Taranto hanno permesso a questa città di ottenere un salto quantitativo eccellente nel campo dei redditi, tant'è che la città bimare è la sola del Sud, insieme con Matera, ad avvicinarsi alla media nazionale (Taranto ha un indice 95,7; Matera 94,1); tuttavia, le acciaierie tarantine non hanno suscitato alcuna industria indotta, sia perché i loro cicli lavorativi fanno parte di programmi a livello nazionale, e dunque vengono piegati a disegni e ad esigenze di carattere macroeconomico, che non possono tener conto di fatti e di ipotesi di sviluppo locale o regionale; ma, sia perché, di per sé, l'acciaio e la ghisa vengono fuori da " complessi chiusi ", autoctoni, che non richiedono collaborazioni esterne, non determinano alcuna spinta per la nascita di aziende complementari. Identico discorso si può fare per Brindisi e per l'industria petrolchimica. Come le acciaierie di Taranto dipendono dall'estero per i rottami di ferro e da Roma per i capitali, così la Montedison dipende dall'estero per la materia prima (il greggio) e da Milano per i programmi operativi e per gli investimenti. Anche nel caso di Brindisi ci si trova di fronte a un complesso chiuso e autosufficiente, in grado di produrre tutto, dalla prima all'ultima fase del ciclo lavorativo, e dunque senza capacità di creare direttrici indotte, senza la necessità di essere affiancato da imprese collaterali. Infine, l'area salentina. Qui, il nucleo o area di sviluppo industriale registra, fra le altre Minori, la Fiat-Allis, che in buona parte sforna macchine movimento terra e altre attrezzature agricole destinate al consumo nel Mezzogiorno e al collocamento sui mercati esterni al Sud. Di medie dimensioni, questo complesso ha inciso soltanto sull'occupazione e sul salto qualitativo e quantitativo dei redditi del capoluogo e dei centri immediatamente vicini. Non è stato in grado, e con ogni probabilità non poteva esserlo, di determinare il "take off ", il decollo dell'intero Salento. Oltre tutto, i rimanenti tessuti industriali (Maglie, Gallipoli, Galatina, Nardò, Casarano), tranne rare eccezioni, sono formati da piccole e piccolissime unità produttive, che hanno trasformato in imprenditori degli ex artigiani, richiamandovi un'occupazione instabile di lavoratori che in massima parte hanno abbandonato i campi. Tant'è che in questa parte della regione predomina ancora il reddito agricolo, e si è gonfiato a dismisura il settore terziario (per sua natura indicativo, quando abnorme, di uno stato di malessere di una società anche locale), mentre il reddito da attività secondaria rimane, malgrado gli incentivi, compresso. Intorno al Salento, dunque, come abbiamo detto, non ci sono vicini più fortunati. Basti pensare che, mentre nel Centro e nel Nord l'industria rappresenta circa il 43% dell'attività, nel Mezzogiorno questa cifra si riduce a poco più del 29 per cento. L'attività agricola, che nelle aree privilegiate rappresenta il 6,7 per cento, nelle regioni meridionali sale al 14,4 per cento: in altri termini, l'attività primaria del Centro e del Nord è sul livello degli Stati Uniti (fermi al 6 per cento), mentre quella del Mezzogiorno è superiore all'analoga attività di qualunque area agricola della Comunità economica europea, compresi il Midi francese, il Borinage belga, lo Scheswig-Holstein della Repubblica federale tedesca. Non siamo in grado di prevedere cosa accadrà nel momento in cui entreranno a far parte del " pool " europeo altri paesi mediterranei con economie prevalentemente agricole. Abbiamo tuttavia il ragionevole dubbio che a pagare sarà, ancora una volta, l'area più debole della penisola.


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