Rivoluzione dei campi




Manlio Rossi Doria



Chi guarda in volo dall'alto una contrada ne vede meglio i contorni, il rilievo, gli insediamenti, lo stato e l'uso delle risorse. Così, a guardare, dall'alto del tempo, a distanza di un secolo, un settore dell'attività umana tanto chiaramente individuato come l'agricoltura, se ne possono vedere i fondamentali mutamenti nell'impiego degli uomini, nell'uso delle risorse, nel volume e nella qualità dei prodotti, nella capacità di soddisfare i bisogni alimentari della Nazione.
Cent'anni or sono l'unità nazionale era stata completata da poco più di un decennio e l'agricoltura si trovava, dopo anni di prezzi favorevoli, alla vigilia della grande " crisi agraria ", che la tormenterà per quasi dieci anni. Essa si era già data allora, quasi dovunque, (salvo che nelle pianure soggette alle acque e alla malaria), gli assetti fondiari e gli ordinamenti produttivi che conserverà a lungo. E' opportuno, pertanto, fare riferimento all'agricoltura del 1875-'80 per intendere i mutamenti essenziali da allora sopravvenuti, e cogliere alla radice i problemi di fronte ai quali oggi ci troviamo.
Se, con un taglio ad arbitrio, si spacca il secolo in quattro venticinquenni, si vede quanto profonde sono le differenze dall'uno all'altro. Il primo venticinquennio, fino al 1900, è stato dominato dalla caduta dei prezzi agricoli e da gravi avversità, ma è stato insieme ricco di fermenti, di benefici conflitti sociali, di costruttivi processi organizzativi e di assestamento. Il secondo, fino al 1925 o giù di lì - malgrado la guerra e il " decollo " dell'industria - è stato il periodo del maggiore progresso (pur sulle basi della tradizionale struttura che l'agricoltura s'era data in precedenza), favorito prima da una certa stabilità e poi da un favorevole decorso (per l'inflazione bellica) dei prezzi agricoli, nonché dall'introduzione di molteplici, ma non sconvolgenti, innovazioni tecnologiche. Il terzo, dal 1925 al 1950, è stato, all'inverso, il periodo più tormentato e critico: l'agricoltura, infatti, fu travolta dalla grande depressione degli Anni Trenta, e in seguito dalla stentata ripresa dell'autarchia, dagli sconvolgimenti della guerra e dall'occupazione.
Comune a tutti e tre questi quarti di secolo è stata tuttavia una fondamentale caratteristica: la struttura portante, per così dire, dell'agricoltura italiana (la struttura della proprietà e delle aziende, il carico di mano d'opera, gli ordinamenti produttivi) è rimasta dovunque sostanzialmente la stessa, tanto da giustificare la continuità della più o meno buona, politica agraria.
A tutt'altro giudizio porta, viceversa, l'esame dell'ultimo venticinquennio, dal '50 ad oggi. Nel suo corso, infatti, è crollata proprio quella che ho sopra chiamata la tradizionale struttura portante della nostra agricoltura: si è approfondito il divario tra le diverse realtà agricole; si è accresciuto il distacco tra le istituzioni e le politiche (restate, più o meno, quelle che erano), da un lato, e la nuova problematica aperta dallo sconvolgimento, dall'altro.
Poiché non è possibile, in un breve articolo, ricostruire la storia dei primi tre quarti del secolo che abbiamo alle spalle, vediamo solo brevemente le cause e gli effetti del radicale sconvolgimento degli ultimi venticinque anni e i problemi che esso ha aperto per l'agricoltura dei prossimi venticinque anni.
Le cause dello sconvolgimento - accumulatesi a poco a poco in precedenza, ma divenute operanti e manifeste solo dopo il 1950 - sono state la rapida crescita dell'industria e dell'intera economia sotto il suo dominio: l'intollerabile divario tra redditi agricoli ed extra-agricoli; l'introduzione tardiva e sconvolgente delle nuove tecnologie agricole, legate all'industria e simboleggiate dalla crescente meccanizzazione.
Gli effetti di queste cause sono davanti agli occhi di tutti. Gli addetti all'agricoltura - che si erano mantenuti fermi per un secolo sugli otto milioni e mezzo (quanti ne aveva annoverati il primo censimento dell'Italia unita del 1861 e ne annoverò all'incirca il censimento del 1951) - sono caduti (per sottrarsi al divario dei redditi) a meno di tre milioni, la maggior parte dei quali è oggi di uomini e donne sopra i quarant'anni. Il distacco tra la " polpa " e l'" osso ", (seguendo l'espressione entrata nell'uso) - ossia fra le terre di pianura o altrimenti dotate di buone risorse agricole, e le terre dell'interno, collinari e montane - è enormemente cresciuto.
Nelle prime (preda, in gran parte, ora è un secolo, dell'acquitrino e della malaria) si concentrano oggi (malgrado che occupino meno del venti per cento del territorio) più della metà della produzione e i tre quarti delle produzioni più ricche. Nelle seconde (che occupano l'ottanta per cento del territorio), la coltivazione dei terreni regge solo sulle terre di chi si è ostinato a non partire e su quelle che facilmente si prestano all'uso delle macchine, mentre sempre più appaiono incolte e abbandonate le terre alte e scoscese, dove la macchina non può entrare e dove l'antica suddivisione delle proprietà e delle aziende impedisce il ritorno al pascolo e al bosco, con la conseguenza di rendere aleatoria e pericolosa la difesa del suolo.
Si dice - ed è vero - che la produzione, in questi ultimi venticinque anni, è cresciuta come mai in precedenza. E' facile, tuttavia, obiettare: 1) che l'aumento non rappresenta che una parte di quello che, in base alla moderna tecnologia (tardivamente e solo parzialmente applicata), sarebbe conseguibile nel nostro Paese; 2) che i consumi e i fabbisogni alimentari sono (con l'aumento del reddito) così vistosamente cresciuti da rendere insostenibile il disavanzo della relativa bilancia commerciale; 3) che l'aumento della produzione è tanto disegualmente distribuito nel territorio da nascondere la crescente inutilizzazione di molte risorse; 4) che l'aumento è stato ed è conseguito, in gran parte, con un impiego crescente (e spesso esuberante) di mezzi tecnici industriali, il cui elevato costo va detratto, per un corretto calcolo, dall'aumento della produzione agricola.
Se questo, nelle cause e negli effetti, è sommariamente il quadro dei mutamenti verificatisi nella agricoltura nell'ultimo quarto di secolo rispetto ai settantacinque anni precedenti, le conclusioni sono ovvie.
Malgrado gli innegabili spontanei adattamenti alle nuove circostanze da parte degli agricoltori, è una pericolosa illusione credere che allo straordinario sconvolgimento e ai problemi da esso provocati la risposta possa restare, negli anni prossimi, quella, modesta e confusa, che la politica agraria oggi in discussione ha finora elaborato. Malgrado i diseguali aumenti di produzione nei vari reparti produttivi, si possono e si debbono conseguire accrescimenti produttivi maggiori e meglio distribuiti nel territorio, tali, se non da eliminare, da ridurre il disavanzo alimentare. Allo squilibrio tra zone di " polpa " e di " osso ", ossia di pianura e interne, va posto energico rimedio con una specifica politica per le zone interne, capace di combinare riordinamento fondiario, riconversione produttiva, attività extra-agricole, difesa del suolo e assetto del territorio; e capace, principalmente, di riportare in queste zone forze di lavoro giovani, sicure di trovarvi un civile e durevole avvenire.
Tutto questo ha, tuttavia, un costo, da commisurare non tanto in maggiori pubblici stanziamenti per l'agricoltura, quanto in diversi rapporti tra agricoltura e industria, da far pagare cioè ai settori industriali, la cui crescita, durante un secolo - non lo si dimentichi - è stata solo possibile perché le classi e le regioni agricole, a loro spese, hanno fornito belli e formati gli operai, ossia il più importante dei mezzi di produzione.

Frutta fresca

In media, la produzione comunitaria è aumentata del 6,8%. La quota di partecipazione italiana alle esportazioni nell'ambito della Cee è scesa dal 49,6 al 37,9%. Concorrenza notevole subiamo per albicocche e pesche. Maggiori concorrenti del nostro Paese, la Grecia e la Spagna.

Ortaggi

In un decennio, la produzione italiana è cresciuta del 2,1%. Le nostre esportazioni verso i Paesi della Comunità sono calate di un terzo. Per il pomodoro, ad esempio, esportiamo 100.000 quintali di prodotto fresco 1.700.000 quintali di trasformato.
Tale quota di esportazione è inferiore agli indici globali dei paesi mediterranei. Gli incrementi di produzione registrati in Turchia e in Egitto e la rapida e avanzata riorganizzazione delle industrie di trasformazione in Grecia, Spagna e Portogallo, realizzata con notevole partecipazione di capitali comunitari, compresi quelli italiani, inducono a un forte pessimismo. Per le patate, si può affermare che solo il comparto delle precoci rientra nel flusso di scambio. Su quattro milioni di quintali di precoci prodotti in Italia, ne esportiamo circa la metà. Per le cipolle, l'export dei Paesi mediterranei è quasi uguale a quello italiano.

Vino

La produzione italiana sfiora la media annua di 80 mi-lioni di ettolitri. I consumi complessivi Cee ammontano a 150 milioni di ettolitri. L'Italia partecipa all'approvvigionamento con il, 50%. Le produzioni dei Paesi mediterranei si aggirano sui 70 milioni di ettolitri, (di cui ben 59 prodotti da Grecia, Spagna e Portogallo), con una corrente di esportazione di circa 5 milioni all'interno della Cee. In questi ultimi anni, considerevoli quantità di vino importate da questi Paesi hanno registrato prezzi di gran lunga inferiori a quelli di riferimento interni alla Comunità. Inoltre, la Cee ha adottato una politica di contenimento della produzione interna (distillazione, stoccaggio a breve e medio termine, limitazione dei nuovi impianti ecc.), ma non ha potuto influire sulle importazioni, regolate dai trattati stipulati. Anche il prodotto industriale del vino (acquaviti, vermuth ecc.) ha subìto nel nostro Paese un calo pauroso del flusso di esportazione per la concorrenza estera, resa possibile dai minori costi di produzione, da tecniche di preparazione più avanzate, da normative più " disinvolte " (alcool etilico, zucchero, coloranti ecc.), esistenti in vari Paesi Cee a favore della confezione del prodotto finito.

Olio d'oliva

La produzione dei Paesi mediterranei sfiora i dodici milioni di quintali di media annua. L'esportazione di questi Paesi ha realizzato un tasso del 30% del totale prodotto. La Cee, e per essa l'Italia, che paradossalmente ne costituisce quasi l'unico acquirente, ne ha importato ben 1,9 milioni di quintali. Spagna, Portogallo, Grecia e Turchia producono, da sole, circa otto milioni di quintali all'anno.

Frutta secca

In questo comparto l'Italia ha avuto un calo di produzione di circa il 20To negli ultimi dieci anni, ad eccezione delle nocciole incrementate del 75%. I Paesi mediterranei raggiungono un livello di produzione sui sei milioni di quintali. La nostra esportazione nella Cee è calata dal 41 al 17,7%; quella dei Paesi mediterranei ha raggiunto il 14%. La Comunità importa anche dagli Stati Uniti (mandorle), dalla Cina e dal Brasile.

Tabacco

Produciamo mediamente un milione di quintali (con 50 mila ettari di superficie coltivata). Le nostre produzioni, però, sono fortemente condizionate da varietà di tipo orientale e indigeno scarsamente utilizzate dai monopoli occidentali. La produzione mediterranea ammonta a 3,6 milioni di quintali, all'8% afflitta dai nostri stessi problemi. Solo la Grecia ha incrementato la produzione di tabacchi di tipo americano, raggiungendo il livello della produzione italiana.

Floricoltura

Valutazione delle produzioni quanto mai difficile: basterà ricordare tuttavia che circa la metà della superficie destinata a questa coltura si trova nelle regioni meridionali della Cee: 8.500 ettari in Italia, 6.000 in Francia. Nella quasi totalità, si tratta di colture protette (serre). Le importazioni Cee sono aumentate in un decennio di oltre il 100%, ma la partecipazione italiana è passata dal 9 al 6%.

Frumento

La Cee si presenta eccedentaria nella produzione del tenero e quasi autosufficiente nel frumento duro. Autosufficiente l'Italia per il tenero, un po' meno per il prodotto duro. Spagna e Grecia sono al limite dell'autoapprovvigionamento. Il problema non riguarda le importazioni, ma le difficoltà di mantenimento delle quote della politica di sostegno alla produzione di frumento duro adottate dalla Cee a favore dell'Italia e della Francia (rispettivamente per 32^35 e per 5-6 milioni di quintali): mentre la bilancia import-export italiana registrerebbe contraccolpi, la Francia ne uscirebbe indenne per il volume di esportazione di frumento tenero negli stessi Paesi mediterranei.

In sintesi, la partecipazione delle regioni meridionali e delle isole al totale di produzione italiana dei prodotti mediterranei risulta schiacciante:
- vino: Italia = 76.867.000 hl., di cui il Mezzogiorno = 31.746.000
- olio d'oliva: Italia = 4.800.000 q.li, di cui il Mezzogiorno = 3.860.000
- pomodoro fresco: Italia = 36.374.000 q.li, di cui il Mezzogiorno = 22.260.000
- patate: Italia = 29.030.000 q.Ii di cui il Mezzogiorno 15.896.000 (Il Sud ha l'intero comparto di esportazione delle patate precoci)
- tabacco: Italia 927.000 q.li di cui il Mezzogiorno 570.000
- agrumi: Italia 28,869.000 q.li di cui il Mezzogiorno 28.441.000


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