E' necessario fronteggiare
problemi di sostanza e problemi di metodo: questa la parola d'ordine
che i meridionalisti hanno proposto per la nuova fase operativa della
politica e della politica economica a favore delle regioni meridionali.
La sostanza, sottolineava qualche tempo fa un quotidiano meridionale,
attiene all'intervento in settori - quali sono quello agricolo e quello
turistico - che sono stati fino a questo momento sottovalutati o messi
al margine da coloro i quali enfatizzavano, addirittura al di là
di ogni logica proporzione, il tema dell'industrializzazione nel Mezzogiorno;
industrializzazione che, pur necessaria, tuttavia da sola non è
sufficiente a cambiare strutturalmente e del tutto il volto antico del
Sud. Per quel che riguarda il metodo, esso attiene alla diffusione degli
interventi su tutto il territorio, ma anche alla preoccupazione di dotare
tutte le regioni del Mezzogiorno di uomini modernamente preparati (imprenditori
e lavoratori), che siano in grado di gestire in proprio il loro futuro.
Sostanza e metodo che, in massima parte finiscono per interpretare le
attese e le ansie del continente Mezzogiorno, del Sud come " altra
Italia ", e con il riproporle all'attenzione di chi è chiamato
a definire, sui diversi piani di responsabilità, le scelte operative.
L'argomento non è nuovo, quello del Sud è problema vetusto
e irrisolto, che torna d'attualità nei momenti di maggiore tensione
intellettuale e politica, di crisi economica del paese. C'è stata,
in questi ultimi tempi, una caduta degli interessi della questione meridionale,
forse in parte giustificata dalla più concreta attuazione di
interventi in favore del Sud, da una maggiore presenza dell'Europa nelle
aree depresse continentali (pur con tutti gli squilibri tra zona e zona),
e dalla prassi della politica italiana, che nel bene e nel male ha tentato
di non far approfondire il vecchio solco, la linea di displuvio tra
aree ricche e privilegiate e aree " di diseconomia " del paese.
Questa caduta di tensione è stata tanto più profonda,
quanto maggiore è stato l'isolamento (o la lontananza) in cui
si sono ridotti i grandi spiriti meridionalisti: isolamento con ogni
probabilità determinato dal recente principio politico-economico,
secondo il quale quello del Sud è un problema " nazionale
", dunque da proiettare in tutte le manifestazioni italiane, da
tener presente, come fattore determinante, di tutte le decisioni prese
dagli organi di governo e dagli strumenti di politica programmatica.
Ciò ha fatto in un certo senso chetare le acque, che si erano
agitate parecchio tra gli anni Cinquanta-Sessanta, fino ai giorni del
'68. Se non che, tutto quel che si è potuto fare, come dicevamo
poco su, è stato impedire l'approfondimento del solco storico:
il Mezzogiorno non ha recuperato un solo passo nei confronti del Centro
e del Nord, con in più la prospettiva della ormai quasi definitiva
chiusura delle frontiere interne ed estere (per saturazione del mercato
del lavoro, e non per decisione politica) all'emigrazione meridionale.
Allo stato delle cose, scrive Egidio Sterpa in un volume pubblicato
qualche settimana fa, (" Anatomia della questione meridionale "),
almeno cinque problemi restano irrisolti, e richiedono particolari interventi
per quel che riguarda, senza esclusione alcuna, le regioni meridionali:
- la riconversione dell'agricoltura, nel quadro della vocazione meridionale
e delle esigenze di competitività imposte dalla partecipazione
al Mercato Comune Europeo di paesi di solida compagine agricola in campo
ortofrutticolo (come il Sud-Ovest francese) e in campo lattiero-caseario
(come le agricolture ricche dell'Olanda, del Belgio e della Repubblica
Federale Tedesca);
- la riconsiderazione del ruolo del turismo, che al di là delle
aspettative spesso giustificate, ma a volte anche non gratificanti dell'industrializzazione,
può aprire al Mezzogiorno prospettive nuove e proporlo come grande
polo d'attrazione mediterraneo;
- lo sviluppo delle zone interne, il cui avvenire va rimeditato in profondità:
si tratta dell'" osso " del Sud, delle grandi aree oppresse
dalla montagna, colpite dalle frane e dagli smottamenti, per la natura
argillosa dei terreni, che smottano compatti a valle e verso il mare:
qui, oltre tutto, potrebbe svilupparsi un tipo di agricoltura al passo
con quelle lattiero-casearie, coni grandi allevamenti che ci consentirebbero,
a breve e a medio termine, di colmare quel deficit alimentare che è
una delle voci passive di maggior rilevanza nella nostra bilancia dei
pagamenti; e qui, ricollegandoci al punto precedente, potrebbe avviarsi
un discorso turistico che abbraccerebbe tutte le stagioni, sia per la
presenza di centri caratteristici e " diversi " rispetto a
quelli del Centro-Nord, sia perché la montagna appenninica non
ha meno fascino di quella alpina (e si veda, in proposito, l'esempio
dell'Abruzzo, del Molise e della Sila, in Calabria), sia infine per
la vicinanza della montagna al mare;
- la creazione di un ceto imprenditoriale in grado di gestire in via
del tutto autonoma le nuove strutture produttive: e questo colmerebbe
quella che con ogni probabilità è stata la maggiore lacuna
della società meridionale, votata (forse per tradizione, con
più probabilità per necessità storica) al pubblico
impiego e all'impiego di servizio;
- la formazione culturale e professionale a tutti i livelli, una formazione
che consenta di corrispondere a precise domande di occupazione qualificata
con alto grado di mobilità, con presupposti di managerialità,
con disponibilità del credito: cioè, in ultima analisi,
di un clima globale assai diverso, più aperto rispetto al passato,
anche recente.
Questi, i cinque nodi da sciogliere perché il Mezzogiorno possa
pensare (insieme con i metodi e con la sostanza) a uno sviluppo in grado
di metterlo non al passo, ma al trotto con i tempi. Altrimenti, questa
che è, a tutti gli effetti, la più vasta area depressa
dell'Europa occidentale, rischia di scendere al livello di quel Mondo
emergente, terzo nella graduatoria dei " mondi " emblematici
di varie stratificazioni di ricchezza e di povertà, giunti a
quattro (e Quarto Mondo è quello per il cui recupero non sembra
sia sufficiente mezzo secolo di operatività creativa), e che
non è poi detto non debbano diventare anche di più.
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