§ Ripresa dell'economia planetaria

Sette anni in lista d'attesa




Ulrico Buttini



Secondo un'indagine pubblicata da " Mondo " e " Fortune ", il mondo naviga in brutte acque: lo sviluppo dell'economia subisce forti contrasti, approfondendo il solco tra paesi industrializzati, paesi in via di sviluppo e Quarto Mondo; rallenta la crescita nella produttività e nei prodotti nazionali lordi; si smantellano macchinari per ridurre il consumo di energia, aumentano le spese per l'assistenza e le spese pubbliche, là dove non si tiene conto di un corretto rapporto esborsi sociali-Pnl; il commercio mondiale è sotto il livello di guardia, anche per le misure protezionistiche adottate di recente da diversi Stati; l'inflazione è diventata epidemica, e rischia di distruggere le economie se non si corre presto ai ripari. Secondo i futurologi, i primi segni di ripresa, se non si verificano fatti traumatici, dovrebbero comparire entro la metà degli anni Ottanta.

Ha scritto Herman Kahn (professione: futurologo) che l'" era meravigliosa è tramontata ". Questa parentesi felice, sostiene Kahn, si è conclusa d'un colpo intorno al 1973, dopo un buon quarto di secolo, durante il quale nei paesi industrializzati la produzione crebbe a un ritmo impressionante, quadruplicando o quasi. Cosa ci riserva il futuro? Non sono pochi coloro i quali sono convinti che l'economia planetaria avrà deboli tassi di sviluppo e che la crescita insoddisfatta della domanda di lavoro creerà profondi sommovimenti almeno per i prossimi venti anni. Cioè: dopo un ciclo venticinquennale altamente positivo, si alterna un ciclo della stessa ampiezza temporale altamente negativo. Corsi e ricorsi anche in economia? Non è da escludersi. C'è nell'aria una certa inquietudine. E' stato scritto che a partire, appunto, dal 1973, " i paesi industrializzati sono passati attraverso tormentose crisi economiche. Gli investimenti hanno cominciato a stagnare; gli indici di sviluppo si sono contratti, e sia il tasso di disoccupazione, sia quello d'inflazione sono tuttora a livelli inaccettabili ( ... ). Molti ritengono che le difficoltà a breve scadenza (dovute alla lentezza della ripresa dopo l'ultima recessione) si accompagneranno tra poco a trend nel lungo periodo negativi. Un esempio di questo fenomeno è dato dal rallentamento di crescita sia della produttività, sia della forza-lavoro in quasi tutti i paesi industrialmente più avanzati ". Da tutto ciò, è scaturita l'opinione, secondo l'autore abbastanza diffusa, che il mondo si stia incamminando verso un prolungato periodo di quasi-stagnazione.
Fino a che punto è giustificato questo pessimismo? E' da considerarsi fuori discussione il fatto che fino all'inizio degli anni Ottanta " gli indicatori dello sviluppo continueranno probabilmente a restare su un tono dimesso ". Tuttavia, è opinione corrente che verso la metà dello stesso decennio l'economia planetaria dovrebbe rimettersi al trotto, perché dovrebbero essere a mano a mano eliminati gli ostacoli allo sviluppo di breve termine, insieme con molte delle tendenze contrarie allo sviluppo di lungo termine: neutralizzate le quali, il ritmo cardiaco della produzione e dell'offerta di lavoro dovrebbe riprendere con cadenze via via crescenti. Gli esperti di " Fortune ", solitamente bene informati sulle cose del mondo economico, sostengono, che l'impedimento di maggior consistenza, allo stato delle cose, è di natura psicologica: " Con l'allargarsi dei movimenti ecologici negli ultimi dieci anni - affermano - e specialmente dopo la pubblicazione, nel 1972, di " I limiti della crescita " da parte del Club di Roma, la desiderabilità di una rapida crescita economica è stata pesantemente messa in dubbio. Si sostiene che, se lo sviluppo dovesse protrarsi al ritmo registrato nel dopoguerra, ben presto la vita sul pianeta Terra diverrebbe invivibile. Ma la realtà è che una vigorosa espansione economica è indispensabile perché la vita possa continuare sulla Terra. A meno che nei paesi ricchi la crescita si mantenga a livelli relativamente sostenuti, il mondo in via di sviluppo soffrirà quasi certamente gravi danni economici: così le tensioni internazionali e i pericoli si moltiplicheranno in maniera incalcolabile ".
Secondo un'indagine della Chase Econometrics, la società di ricerche e previsioni econometriche della Chase Manhattan Bank, indica che " ogni perdita dell'un per cento nell'indice di sviluppo dei paesi industrializzati produce una perdita dello 0,8 per cento nella crescita del cosiddetto Quarto Mondo (che comprende i paesi emergenti che non appartengono all'Opec). Questo rapporto non è immutabile: i paesi poveri possono a poco a poco ridurre la loro dipendenza dai ricchi, espandendo i mercati interni e promuovendo il commercio tra loro. Tuttavia, il quoziente illustra con relativa approssimazione fino a che punto il benessere economico dei paesi emergenti resterà vincolato al benessere economico dei paesi già sviluppati ".

Se osserviamo attentamente quanto si è verificato negli ultimi anni, non facciamo fatica ad accorgerci che il ritmo di sviluppo del mondo industrializzato è stato tutt'altro che sostenuto. Dal '72 al '76 i paesi industrializzati si sono sviluppati a un ritmo annuo, in termini reali, del due per cento: un tasso - nota " Il Mondo " - inferiore di circa tre punti percentuali al ritmo raggiunto mediamente nei dodici anni precedenti. " Se questa decelerazione dovesse protrarsi, l'indice di crescita del Quarto Mondo dovrebbe scendere tra il 2,7 per cento e il 3,2 per cento. E dato che la popolazione di buona parte dei paesi più poveri aumenta a un ritmo superiore al tre per cento l'anno, il reddito pro-capite diminuirebbe oltre gli attuali, già bassi livelli. Occorrono quindi forti tassi di progresso economico nei paesi industrializzati non solo per ridurre la disoccupazione in questi stessi paesi, ma anche per evitare il deterioramento dei tenori di vita di una grande porzione degli abitanti più poveri del pianeta ".

Ma come aumentare di fatto il tasso di sviluppo nei paesi industrializzati? Risponde " Fortune ": " Uno degli ostacoli principali è la scarsa volontà del mondo degli affari di riportare il livello degli investimenti ai tassi registrati prima della recessione. La persistente debolezza nella formazione del capitale ha messo in imbarazzo molti analisti, che spesso la attribuiscono all'incertezza che pervade gli ambienti economici. E' vero che gli uomini d'affari non hanno tutti i torti quando si dicono incerti di fronte a varie minacce: l'aumento incontrollato dell'inflazione, l'impatto di tassi di cambio fluttuanti e la prospettiva di nuove interferenze governative ".
In ogni caso, va sottolineato che i motivi di fondo del rallentamento degli investimenti vanno ricercati nella diminuzione del tasso di rendimento del capitale. Questo declino, sostengono gli esperti, è stato fortemente aggravato " dall'aumento dei prezzi petroliferi (che sono quadruplicati) che ha finito per incidere sui tassi di profitto, provocando tra l'altro un rallentamento della crescita della produttività ". " Per far funzionare le macchine - sostiene l'autorevole settimanale italiano - ci vuole energia, e così il rialzo dei prezzi energetici favorisce ( ... ) un maggior uso della manodopera piuttosto che un maggior uso dei macchinari. Di conseguenza, il rialzo dei prezzi energetici tende a reprimere la domanda di beni ad alta intensità di capitale e a rallentare la crescita della produttività ".
In parole povere, che cosa è successo? I prezzi petroliferi sono aumentati più volte; di contro, ogni volta è diminuito il consumo di energia per unità di produzione: ciò ha reso difficile la vita ai produttori di beni ad alto contenuto di capitale. Nello stesso tempo, una parte delle macchine ad alto impiego di energia (quelle dell'industria chimica, tanto per fare un esempio classico) ha continuato ad accrescere i costi produttivi. A questo punto, o queste macchine sono state utilizzate solo parzialmente, o addirittura sono state fermate.

Da qui, l'obsolescenza di numerosi macchinari. Stime e interpretazioni del fenomeno sono, ovviamente, diverse, e spesso contrastanti. Riferisce " Fortune ": " L'economista George Perry, della Brookings Institution, ritiene che negli Stati Uniti le ripercussioni di questo fenomeno sulla produzione siano state insignificanti. Ma Robert Rasche, dell'Università di Stato del Michigan, e Jack Tatom, della Federal Reserve Bank di St. Louis, pensano invece che gli effetti siano stati enormi. In un quadro più ampio, Jacques Artus, un economista che lavora per il Fondo Monetario Internazionale, stima che la produzione potenziale dell'industria manifatturiera dei principali paesi industrializzati sia diminuita di circa il 2,5 per cento in conseguenza del rialzo dei prezzi petroliferi. In altre parole, l'Opec si è comportato come se avesse distrutto o danneggiato più di due macchinari su cento in funzione nei primi dieci paesi industrializzati del mondo ".
Questo vandalismo non violento dei paesi produttori di petrolio, rileva a sua volta " Il Mondo ", ha ridotto, l'ammontare del capitale per unità lavorativa. Di conseguenza la produttività, che già cominciava a subire compressioni a causa di altre influenze, ne ha sofferto durante il '74. Negli USA la produzione per ora lavorata calò addirittura del 2,9 per cento. Nel '74 e nel '75 quasi tutti gli altri principali paesi industrializzati sperimentarono o un reale declino nella produttività, o un brusco rallentamento nei tassi di crescita. Pare che Inghilterra, Canada e Giappone siano state le aree maggiormente colpite, anche se resta difficile distinguere le conseguenze delle rivendicazioni dei paesi produttori di petrolio da quelle della recessione mondiale, che a sua volta era in parte una conseguenza dell'elevato costo del greggio. Affermano gli esperti: " Con il deterioramento dell'efficienza produttiva, l'inflazione guadagnò terreno, i costi per unità lavorativa aumentarono in maniera allarmante e si accentuò la compressione dei profitti. Il declino dei profitti significò guadagni finanziari più modesti, e minori dividendi per gli azionisti. Fu colpito anche il quoziente di risparmio individuale, dato che la gente trovava più attraente consumare piuttosto che risparmiare a indici di rendimento ristretti. Il frutto di questo intrecciarsi di fenomeni è stato un rallentamento praticamente universale della formazione del capitale, fenomeno che ha dato il via ai timori di una carenza di capitale a lungo termine ".

Sebbene l'Opec abbia scatenato forze di enorme potenza, l'economia mondiale non avrebbe sofferto così pesantemente se i governi avessero fronteggiato le domande di beni di consumo, di investimento e di servizi (cioè, la cosiddetta " domanda aggregata ") con maggiore intelligenza. Stati Uniti, Repubblica Federale Tedesca e Giappone premettero con forza sui freni monetari, aggravando la crisi recessiva. Francia Scandinavia, Italia, Inghilterra e Paesi Bassi commisero l'errore opposto: misero in circolazione troppa carta moneta, favorendo in questo modo fulminei aumenti di prezzi e salari. Così, nessuno riuscì ad evitare le conseguenze dell'azione dell'Opec, tanté che il reddito nazionale reale si ridusse in tutti i paesi del mondo. Gli Usa caddero in ciclo di depressione nel '74-'75, e ne uscirono nel '76-77; Francia, Paesi Bassi e Svezia rinviarono la recessione al '76-'77; l'Italia sta ancora pagando le conseguenze del mancato aggiornamento della sua industria, in buona parte di trasformazione (come nel caso, della chimica, dei tessili, e via dicendo); e la Germania, che ha agito sempre con una certa disinvolta sicurezza, in realtà solo ora vede profilarsi la possibilità di una ripresa stabile. In cambio, sono aumentati i prezzi dei prodotti occidentali: e i paesi dell'Opec, che mancano di beni e di servizi, devono pagare di più, perché hanno fatto pagare di più. Fin dove salirà questa spirale?
E' opinione che, di fatto, il costo del greggio aumenterà del due per cento all'anno. I paesi industrializzati sono in grado di assorbire questi rialzi, senza i traumi del '74. Sono in grado di farlo, ovviamente, se non ci saranno altri colpi di testa. In ogni caso, ci vorrà almeno un settennio perché questi paesi si mettano del tutto al passo con la situazione energetica. Intanto, una parte dei macchinari resta inutilizzata o sottoutilizzata, o addirittura smantellata. Il problema è trovare il modo di trasformarla, perché consumi meno energia. Ciò significa investire grossi capitali, con una produttività ancora bassa. Solo nel momento in cui il " parco macchine " sarà stato in gran parte riconvertito, le aziende potranno ridedicare i loro capitali all'acquisto di beni produttivi ad alto contenuto di capitale, e il tasso dei profitti dovrebbe riaumentare. Da tutto questo non dipenderà solo il futuro dell'Occidente, ma anche quello dei paesi a regime collettivo (le cui economie statali stringono sempre più stretti rapporti con quelle libere), e soprattutto quello dei paesi del Terzo e del Quarto Mondo. Le interdipendenze sono ormai evidenti. Ogni ricatto si ritorce, prima o poi, contro chi l'ha ordito. E' bene tenerne conto.


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