§ IN ATTESA DEL MIRACOLO

Nostro caos quotidiano




Giovanni Arpino



Quel certo Medioevo che riteneva-mo " prossimo venturo " è già arrivato, sta cavalcandoci. Gli intellettuali disputano sul terrorismo tradendo paura (una paura già teorizzata come diritto umano da Montale: sarà l'ultimo dei nostri diritti?); il debito pubblico aumenta secondo spirali vertiginose, stiamo pagando le tasse del '78 e nel '78 pagheremo forse quelle del '90, con buona grazia dei dicasteri finanziari che ci considerano sudditi immortali. La Biennale veneziana è riuscita a far scrivere un paio di righe spiritose persino ad una rivista russa, cosa straordinaria; alla televisione i dibattiti (tra due attori incarogniti e inutilmente diretti da Arbasino, tra Claudia Cardinale e il suo " compagno " con ceffo e borchie e pretese registiche) scadono ad un qualunquismo gaglioffo; sullo stesso giornale nel quale scrivo il verbo" arrabbiarsi ", voltato in un termine che si ritiene spiccio e crudo, appare due volte in prima pagina, quasi a voler stringere il discorso con una incisività gergale che invece è fiato del Niente.
Caos quotidiano, dunque: e gente ,che si rinchiude in nere cappe di egotismo, che raccorcia il perimetro vitale della sua stessa esistenza, che ignora le regole comunitarie. Ci si sente più soli, più illividiti, e vuoti. Le immagini che dovrebbero esserci comuni e costituire un " linguaggio " si sbriciolano in putritudine nullificante. Un uragano senza nome ha sconvolto la nostra spiaggia, scoperchiando abitazioni, facendo sortire topi dalle fogne.
La gente reagisce visceralmente, quando discorre: in treno incontri uomini e donne che invocano i colonnelli (importabili dal Cile?) o che sognano un gruppo di governanti, pudichi responsabili consapevoli, disposti ad affacciarsi da ogni video, sfidare l'impopolarità presunta e annunciare: signori, ogni festa è finita, tutti a sgobbare, sennò finiremo in un futuro regime " alla Saigon ". Ma non esistono quei colonnelli, per fortuna, e non nascono quei governanti, per disgrazia.
La commedia italiana, benché costretta ad esibirsi su un palcoscenico paradossale, continua le sue prove: c'è chi tenta di spegnere la luce; c'è chi occupa posti di critico abusivo e intollerante; c'è chi pretende il ruolo di primo attore e non ha doti di comparsa. Un piccolo diluvio di " tredicesime " dimezzate ha favorito i commerci e gli scippi natalizi.
E quante cose ci mancano: l'antica allegria di respingere la paura con un socratico imperativo votato alla vita; la fiducia nel coinquilino; la costanza laboriosa che favorì un " boom " ormai preistorico. Sadat Begin riescono a incontrarsi a Tel Aviv (e Golda Meir fa ridere tutti, durante una conferenza stampa, ma la televisione italiana non traduce i suoi lepidi interventi; e come ci manca l'interpretazione di Carlo Casalegno su questa svolta di speranza in Palestina), ma noi, fratelli o anche estranei, però appartenenti alla stessa lingua, benché accademica, noi no, mai.
La bontà è morta, è " loro " e basta. Gianni Brera intervistato qualifica Torino un " luogo che sta a metà strada tra Busto Arsizio e Tunisi ". Poi si definisce laureato in scienze politiche e si confessa " villano che non possiede terra ". Dice proprio " villano ", non villico: e certo non tocca a noi correggergli la parola.
E' caos, sì, mentre muoriamo dalla fame di ragione. Moriremo malgrado l'ostinazione dei trapianti, degli appelli, degli uomini di buona volontà. Nessuna futura lettera al Bambin Gesù, firmata da noi, sarà credibile. Godiamo sadomasochisticamente a sbranarci: alle tavole rotonde, per iscritto, su e giù per elzeviri, davanti alle telecamere. Con smanie giovanilistiche, peli che traspaiono dalle camicie aperte sul petto, spudorataggine intersessuale, mancanza di rispetto per il lavoro altrui, smania di " ghettizzare " chicchessia. E così alleviamo i figli, che via via si corazzano davanti a questo gioco crudele, diventano insensibili, masticano Morte come se fosse una cicca di gomma americana.
Un bieco furore ci attanaglia i visceri, ci fa mentire, ci chiude in cantina. Un generale è arrestato ma non offre il petto, piange; un ministro sproloquia frasi costruite su viadotti di nebbia parolaia; a Milano un gruppuscolo di operai della ex Motta, sconfessati dal sindacato e dai loro stessi compagni, scaraventa dalle finestre quintali e quintali di pasta per panettoni con una fatica tripla rispetto a quella preventivata per la cottura degli stessi panettoni.
E' caos che non piove dal cielo, ma esce dai nostri cuori, dal nostro marcio fegato. Chi difende le istituzioni sa che ogni sua parola finisce per aiutare un Potere discutibile e sovente colpevole. Ma sa anche che le istituzioni andrebbero amate, mentre è invece amato - cinicamente - il Potere. Un uomo come Pajetta stupisce per come si ritrova d'accordo con certi avversari che ideologicamente, storicamente, dovrebbero stargli di fronte, non al fianco. E altrettanto pensano, serrando le mascelle, questi " avversari ". Un vecchio amico mi dice: se ricordo le speranze del 25 aprile del '45 mi coglie una vertigine di rabbia, di pianto, di strazio che accoltella.
Crediamo ancora nei miracoli, però. E l'unico miracolo è che improvvisamente cinquanta milioni di italiani si sveglino, un bel mattino, con la coscienza di non essere eterni, di non essere profeti, di non essere o tutti Lenin o tutti Stalin o tutti Rodolfo Valentino, ma che lavorare bisogna, che il turpiloquio non qualifica, che il quieto vivere collettivo è il massimo traguardo d'una società non una diminuzione della vita, che l'autentica " disperazione giovanile " va risolta grazie all'intelligenza, al raziocinio, al giusto impiego dei mezzi e dei cervelli.
Credere in questo miracolo - umano, non divino, possibile e non manna - è l'unico diuturno dovere che ci spetta. Perché dopo ogni Medioevo, se non lo si è combattuto, c'è solo bufera di controriforme, e avvento dell'inferno. Politico, naturalmente, cioè il peggiore.

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