Aree di concentrazione
primaria (cinque) e secondaria (sette). Le variazioni dal 1951 ad oggi
nel settore degli insediamenti. La selezione naturale: colpito l'artigianato
tradizionale. Il ritmo dell'industrializzazione e quello dell'emigrazione.
In Puglia non esistono
grandi aree di concentrazione urbana, tipiche di altre regioni: il capoluogo,
con i suoi 350 mila abitanti, rappresenta appena il 10% della popolazione
regionale, e tutti insieme i cinque capoluoghi provinciali contano poco
più di 900 mila abitanti, che incidono per circa il 26% sull'intera
popolazione pugliese. Certo, hanno influito su questa modesta urbanizzazione
della popolazione la posizione notevolmente allungata della regione
(350 km da un vertice all'altro, con una larghezza massima che non supera
mai i 50 km) e il fatto che ancora oggi l'attività agricola conserva
un peso considerevole nell'economia pugliese. Queste condizioni hanno:
influito anche sulla distribuzione geografica delle attività
manifatturiere, che soprattutto fino a quando prevalevano, l'artigianato
e le attività industriali tradizionali si localizzavano anche
nei centri minori. L'aumento delle dimensioni medie degli impianti e
la nascita di grandi complessi nella meccanica e nella chimica hanno
cominciato a provocare lo spostamento delle attività manifatturiere
verso i più grandi centri urbani, per le maggiori esigenze che
le iniziative di cospicue dimensioni hanno in fatto di infrastrutture
generali e specifiche.
Le città capoluogo di provincia rappresentano in genere i centri
verso i quali sono indirizzate il maggior numero di iniziative, e nelle
quali si trovano concentrati anche il maggior numero di addetti nelle
attività manifatturiere. Nei cinque capoluoghi sono ubicati poco
più di 400 stabilimenti (il 28,1 del totale regionale) con un'occupazione
complessiva di 56 mila unità, che rappresentano il 58% degli
addetti totali. In tali centri, tuttavia, si rileva una maggiore concentrazione
di unità di media e grande dimensione (oltre i 100 addetti):
circa la metà di tutte le unità di queste dimensioni risulta
ubicata nei cinque capoluoghi, e ancora maggiore è la quota degli
addetti sul totale.
Bari, come numero di impianti e Taranto come numero di addetti sono
i centri industriali più importanti: insieme rappresentano il
37% degli stabilimenti di medie e grandi dimensioni, il 18,4% di tutti
gli impianti, e il 41% circa dell'occupazione globale. Bari tuttavia
presenta una maggiore diversificazione nelle attività produttive
rispetto agli altri capoluoghi, ciascuno dei quali è fortemente
caratterizzato dalla presenza, soprattutto tra le medie e grandi iniziative,
di uno o al massimo due settori produttivi: metalmeccanico a Taranto;
metalmeccanico e chimico a Brindisi; confezioni e tabacco a Lecce; alimentare
e confezioni a Foggia. Tra i comuni non capoluogo, quelli che presentano
una certa importanza per il numero di addetti occupati (oltre 500 addetti)
sono complessivamente 20, e sono concentrati in massima parte nella
provincia di Bari. Per il Salento, tali imprese si trovano a Lequile,
Nardò e Maglie.
Iniziative come la Montedison a Brindisi (i cui addetti rappresentano
circa il 50% degli occupati del comparto manifatturiero in tutta la
provincia) e l'Italsider a Taranto (73% degli addetti in tutta la provincia)
accentuano il carattere di polarizzazione dell'attività industriale
verso i due comuni capoluoghi. Nelle altre zone la posizione del capoluogo
è meno egemonica: Bari, Foggia e Lecce rappresentano mediamente
il 40% del totale addetti nelle rispettive province (dal 37% di Bari
al 44,6% di Foggia). La presenza di un consistente numero di iniziative
di medie e grandi dimensioni nei comuni industrialmente più importanti
del Barese e del Salento fa crescere rapidamente la concentrazione degli
addetti rispetto a quella delle unità produttive. Infatti, il
numero di stabilimenti ubicati nei centri meno importanti rappresenta
il 35% circa nella provincia di Bari e il 53% in quella di Lecce, con
il 17 e il 25%, rispettivamente, di addetti.
La distribuzione
a livello comunale (anche se i confini comunali sono alquanto aleatori
come limiti precisi in campo industriale) di tutte le unità dell'industria
manifatturiera rilevate nella regione mette in risalto l'esistenza di
cinque aree di concentrazione e di una serie di piccole aree minori
(sette, in totale). Le zone di concentrazione primaria sono caratterizzate
dalla presenza di attività manifatturiere che convogliano un
consistente numero di occupati (oltre 5.000 addetti), da una elevata
densità delle iniziative (indice di industrializzazione) e dalla
presenza di numerose unità di medie e grandi dimensioni che rappresentano
la parte principale della struttura industriale della zona. In questo
primo gruppo, le aree di Bari e di Taranto sono di gran lunga le più
importanti; nel complesso rappresentano poco oltre la metà di
tutta l'occupazione nell'industria manifatturiera. Esse tuttavia si
presentano con caratteri molto differenti.
Nelle altre due zone primarie in capoluoghi di provincia (Brindisi e
Lecce) si rilevano preminenza assoluta di iniziative di medie e grandi
dimensioni, scarsità di stabilimenti di piccole dimensioni e
notevole specializzazione produttiva. Dunque, queste due aree sono in
buona parte simili a quella di Taranto (Bari, ripetiamo, è molto
più diversificata). La quinta area di concentrazione primaria
è composta da cinque comuni all'estremo nord della provincia
barese, ha un tessuto industriale fitto di piccole unità operative,
non è interessata dall'impianto di grandi unità produttive
dovute all'iniziativa extraregionale.
Le sette zone secondarie (nelle quali, però, con il passare degli
anni, si vanno concentrando sempre nuove iniziative di piccole e piccolissime
dimensioni, che poi tutte insieme formano un notevole tessuto manifatturiero
interlocale) sono così dislocate: tre in provincia di Foggia,
una in quella di Bari, una in quella di Brindisi, e due nel Salento:
le due aree della provincia di Lecce sommano complessivamente 29 comuni,
mentre tutte insieme le altre ne raggiungono solo quattordici.
Dal 1951 al 1971, e più accentuatamente in questi ultimi sei
anni (fine '77), la distribuzione geografica delle attività manifatturiere
e l'assetto territoriale dell'industria pugliese hanno registrato un
ampliamento della frattura - preesistente, e in ogni caso ben prevedibile
- nelle condizioni di insediabilità tra i comuni più piccoli
e quelli maggiori. Le distanze in termini di unità produttive
e di addetti aumentano, e non solo perché i comuni più
importanti crescono più in fretta, ma anche perché nei
comuni minori si riducono progressivamente sia le unità produttive
che gli occupati. Questo processo di riduzione e di impoverimento delle
attività manifatturiere è stato ancora più forte
del fenomeno di emigrazione, particolarmente sensibile nei comuni più
piccoli per il prevalere delle attività agricole: ciò
spiega la crescente " salita " dei livelli di disoccupazione
nelle aree periferiche rispetto a quelle di concentrazione industriale
primaria, ove, fra l'altro, si sono sviluppate le grandi infrastrutture
civili e sono stati potenziati i servizi sociali che non ci sono, o
sono insufficienti, nelle zone marginali.
Certamente, l'esodo dalle campagne verso i comuni marittimi della regione
e verso le aree settentrionali ha influito negativamente anche sulla
sopravvivenza delle attività artigianali ubicate nei piccoli
centri rurali della regione. Inoltre, l'accresciuta forza di penetrazione
delle principali industrie del Nord ha colpito alcuni settori tradizionali
delle attività manifatturiere pugliesi e salentine, in particolare
quelle degli alimentari e del legno. E' vero che si è trattato
di una - forse indispensabile - selezione naturale; ma è altrettanto
vero che ai vuoti di occupazione creati da queste " cadute "
non ha corrisposto finora una politica dell'occupazione più incisiva,
qual era nei programmi istituzionali degli strumenti di intervento ordinario
e straordinario dello Stato; e non ha corrisposto la scuola, che è
stata, insieme con l'università, una notevole fabbrica di disoccupati
con diploma o con certificato di laurea. Di qui, le prospettive tutt'altro
che incoraggianti per Mezzogiorno, Puglia e Salento, anch'essi prigionieri
della " crisi maggiore ", che è quella in cui si trova
(e non è dato sapere quando riuscirà a venirne fuori)
il Paese.
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