Le cifre del disastro agricolo




Paolo Coteni



Importiamo tutto, dalla carne al formaggio, alla frutta, agli ortaggi, ai fiori. In media, comperiamo prodotti all'estero per una cifra enorme: seimila miliardi di lire all'anno.

La lettura dei dati sul commercio con l'estero ci offre una chiara indicazione di quanto gravemente malata sia la nostra agricoltura, che solo in pochissimi settori (polli, uova, vino, e solo, parzialmente frutta) presenta un saldo attivo. E ci dà anche, il senso della scarsa responsabilità degli italiani, che pur conoscendo bene le difficoltà in cui si dibatte il Paese, non esitano a consumare prodotti stranieri in misura crescente, trascurando, l'appello del " made in Italy " che non rappresenta certamente un richiamo all'autarchia, bensì un civile impegno a non contribuire, ciascuno per la propria parte, grande o modesta che sia, a rendere più pesante una situazione che di per sé è già insostenibile. Analizziamo i dati disponibili, che riguardano i primi dieci mesi dello scorso anno.
Una delle voci che più colpisce è quella del formaggio. Nel periodo in esame ne abbiamo importati, tra fusi, di pasta dura e di pasta molle, circa 140 milioni di chilogrammi, spendendo 291 miliardi di lire, con un aumento del 23% sullo stesso periodo dell'anno precedente. Più che una manìa, è stato scritto che questa dei formaggi stranieri è una pura follia, visto che in Italia si producono molte varietà, una più squisita dell'altra, e in moltissimi casi superiori a quelle transalpine. E il burro? Di straniero ne abbiamo consumato 36 milioni e mezzo di chili, cioè circa 140 milioni di panetti da due etti e mezzo (la misura più comune).
Veniamo alla carne, la voce che presenta il passivo più pesante. La carne, nelle statistiche, è considerata sotto due voci: fresca e congelata, oppure animali vivi. Per la prima registriamo una spesa di 839 miliardi (aumento del 6,8 per cento); la seconda, riferita ai soli bovini, è costata 392 miliardi (per la prima volta, -da parecchi anni, è diminuita del 20 per cento sullo stesso periodo dell'anno precedente). Infatti, nell'arco di tempo considerato, riferito al 1976, abbiamo acquistato all'estero 1.799.583 capi bovini; nel '77, solo 1.331.262. Ma non si può dire che siamo di fronte ad un risparmio reale, né a un buon segno per la nostra zootecnia. Infatti, essendo aumentata l'importazione di carne macellata, i nostri allevatori hanno acquistato meno capi da macellare nel nostro Paese, ma anche meno vitellini da ingrassare nelle nostre stalle. Ciò è la conseguenza della chiusura, nel '77, di oltre 23 mila stalle: gli allevatori sono stanchi di fare un lavoro estremamente ingrato, e di guadagnar poco, o addirittura di rimettere qualcosa. Conseguenza della chiusura, la minore importazione di granoturco (33 milioni invece di 34 milioni di quintali), che tuttavia ci ha fatto sborsare 366 miliardi di lire: un miliardo al giorno.
Anche se non rientra nei prodotti statisticamente indicati come agricoli, riteniamo di dover includere nella nostra inchiesta il settore delle pelli (escluse quelle da pelliccia), del cuoio e della lana. Questi prodotti, infatti, si ricavano da animali d'allevamento, e la penuria di cui risentiamo altro non è se non la conseguenza diretta della nostra crisi zootecnica. Ci sono poche vacche e meno vitelli, quindi l'industria del cuoio, delle calzature, delle pelletterie, deve importare la materia prima; ci sono poche pecore, quindi l'industria tessile deve importare lana. Di lana, ne abbiamo acquistata all'estero per 301 miliardi, mentre la spesa per pelli e cuoio è stata di 505 miliardi (16,8 per cento in più del '76).La crisi della zootecnia, nel suo senso più ampio, è quella che provoca il buco più grosso nella nostra bilancia commerciale, dopo quello del petrolio. Se infatti sommiamo le spese complessive all'estero per i nostri approvvigionamenti, raggiungiamo alla fine del '77 la cifra di 3.500 miliardi: circa dieci miliardi di lire al giorno.
Dopo il settore zootecnico, quello cerealicolo è il più deficitario. Ai 366 miliardi spesi per il mais, dobbiamo aggiungerne 392 per il frumento, segale, orzo, avena. Ma questi prodotti (come il legno, che ci costa 986 miliardi, compresa la pasta per carta) sono assolutamente indispensabili, e se le nostre campagne non ne producono a sufficienza, è giusto importarli, spendendo quanto è necessario. Diverso discorso va fatto per altri prodotti, di cui non siamo carenti, e che si fanno arrivare dall'estero per snobismo o per la sciocca " politesse " di certi consumatori italiani. Come giustificare altrimenti una spesa di 43 miliardi per le conserve vegetali e le marmellate (aumento del 48% sul '76!)? E che dire della frutta: tra fresca, secca e tropicale, ne abbiamo importata per circa 110 miliardi di lire, mentre la nostra, non trovando prezzi dignitosi sul mercato, deve essere ritirata dall'Aima e distrutta sotto le ruspe. Eravamo il giardino d'Europa. Non lo siamo più? Dall'Olanda, da Israele, dal Sudafrica abbiamo acquistato nell'anno scorso 700 mila quintali di fiori e piante, spendendo 45 miliardi di lire (13% in più sul '76). Anche gli ortaggi non ci bastano; oppure, buttiamo via i nostri per mettere a tavola quelli altrui (come avviene per le patate) così ci permettiamo il lusso di spendere 300 milioni al giorno all'estero. Non stiamo considerando, in queste cifre, le bevande: champagne e whisky in particolare, con i quali, più che in qualsiasi altro Paese europeo, beviamo... per dimenticare.


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