Matino - Problematiche di un centro storico salentino




Giuseppe Romano



L'attuale cultura architettonica ed urbanistica è finalmente arrivata alla conclusione che per "centro storico" non si può più intendere soltanto un'area perfettamente definita del tessuto urbano di una città. Infatti il termine centro storico è usato, nel linguaggio corrente ed ufficiale, in maniera distorta e serve principalmente a coprire situazioni urbane e patrimoni edilizi estremamente diversi fra loro, non solo per i fenomeni che li animano (a seconda che ricadano in aree di crescente concentrazione o di abbandono, che alcuni accolgano certe attività non riscontrabili in altri ecc.) ma per le dimensioni fisiche, per le caratteristiche edilizie e della struttura urbana, per le origini, ecc.
Rientrano nel concetto cui è arrivata la cultura, quindi, non solo i nuclei residenziali e monumentali più antichi delle città, ma anche i centri minori e piccoli agglomerati agricoli la cui diffusione nel territorio nazionale segna un tratto inconfondibile del panorama artistico e del paesaggio agrario, italiano.
Più precisamente il centro storico può essere definito da una serie di punti più o meno dislocati e più o meno coagulati sul territorio. Vale a dire che deve entrare a far parte del "centro storico" anche una costruzione trovantesi in aperta campagna, ma storicamente valida, come anche un particolare tratto paesaggistico ecc.
Definiremo, quindi, "centro storico" quell'insediamento in cui sono presenti edifici, organismi, uomini ed ambienti che si intende conservare - fisicamente e socialmente - ed in cui è necessario che siano presenti vincoli e norme di tipo giuridico constrastanti e in alternativa al normale meccanismo di mercato.
Lo studio e la tutela dei centri storici, così come la conservazione dei beni culturali, sono, da qualche anno, al centro di un dibattito assai vivo che però ha dato frutti soltanto in poche occasioni generalmente distribuite in aree geografiche ben definite e limitate e particolarmente indicative. La rivalutazione di questi beni sta avvenendo non soltanto in Italia ma in altre aree europee ove sciagurate operazioni di investimento immobiliare - quando non più tristemente di ignoranza - degredano e distruggono le sedimentazioni storiche sul territorio.
I vari tentativi fatti per salvare questo immenso patrimonio di storia e di bellezza, ancora oggi sono arrivati ad un nulla di fatto; e la verità è che, finora, è mancata la volontà politica di affrontare responsabilmente il problema.
Dal 1939 in Italia non è stata varata alcuna legge di tutela delle bellezze naturali e paesaggistiche, nè alcuna riforma dell'Amministrazione delle Antichità e Belle Arti, nonostante che commissioni parlamentari (Franceschini e Papaldo) abbiano dato rilevanti indicazioni in merito. Dopo la riforma urbanistica del '42 (con tutte le sue carenze) anche se più volte inseguita e annunciata, non si è mai realizzata nessuna altra riforma.
Inoltre dal 1945 il processo di inurbamento non ha conosciuto nè soste, nè regressi; l'abbandono della campagna e dei centri collinari e montani, per non parlare del nostro Sud, è stato progressivo ed inarrestabile.
In questa situazione, una possibile inversione dì tendenza sembra coincidere con una nuova presa di coscienza del problema che è quello di un riequilibrato uso delle risorse territoriali ove le colture, gli insediamenti produttivi, le infrastrutture, le residenze siano tenute responsabilmente compresenti nella pianificazione e nelle scelte economiche e produttive.
Non si tratta cioè di rivitalizzare questo o quello edificio, questo o quel centro storico, quanto di incidere nella realtà e nelle risorse produttive e di lavoro del territorio, premendo per un suo riequilibrio funzionale, tale da garantire il superamento di ogni distorsione.
Il fenomeno dell'abbandono e quindi della progressiva degradazione non interessa soltanto il nostro, ma molti centri storici collinari e montani, così come molti centri interni ad aree economicamente depresse in particolare nel Mezzogiorno. Ne deriva che il degradamento dell'insediamento finisce per coincidere con il degradamento delle attività produttive, confermando il basso livello dei servizi sociali e l'assenza di mobilità sociale.
Il fenomeno della degradazione e dequalificazione dei centri storici è particolarmente vistoso per gli insediamenti formatisi come "borghi" - quali i salentini - ove il prodotto della campagna circostante veniva raccolto e redistribuito, dove si svolgevano le prime operazioni mercantili.
Le città e i maggiori centri pugliesi crescono infatti prima di tutto in funzione della crescita di tutti i meccanismi di intermediazione a cui l'agricoltura pugliese era ed è soggetta; e sono tanto più ampi e sviluppati quanto più alto è il potenziale produttivo dell'agricoltura e più ampi i margini di sfruttamento.
La Puglia e il Salento in particolare è infatti un territorio dove l'agricoltura si presenta come una vera e propria attività economica fondamentale. Questi territori si distinguono, non soltanto, perché in essi è presente una organizzazione economico-agraria di tipo moderno e meno recente che altrove da cui ne deriva una solidità strutturale ramificata; ma anche perché, fondamentalmente, in questi territori troviamo la presenza diffusa di centri abitati che hanno avuto storicamente dimensioni, caratteri e funzioni di città.
Infatti, "nel tradizionale rapporto città-campagna le città pugliesi erano spesso 'fiere permanenti' nutrite dai succhi della campagna circostante, alla quale però non apportavano germi di sviluppo, proprio per il carattere chiuso, immobile ed arcaico dell'economia rurale". (1) Soltanto recentemente "una sempre più difficile economia di mercato, che impone di produrre a costi sempre minori, unita alle crescenti difficoltà nel reclutamento della manodopera, progressivamente decimata dall'esodo rurale, introduce nelle campagne la meccanizzazione. Le città contadine divengono sempre più città e sempre meno contadine, man mano che i contadini vanno perdendo le loro tradizionali qualità per assumere l'abito di lavoratori inseriti in un moderno processo economico". (2)
Di conseguenza "il progressivo diffondersi di una moderna struttura agricolo-industriale, appoggiandosi ad un ambiente urbano preesistente, provoca l'urbanizzazione della società rurale" (3).
Più specificamente, la formazione e lo sviluppo edilizio dei suddetti borghi è in genere medievale, anche se l'espressione architettonica ed urbanistica cui danno luogo a volte manca - come a Matino - di cinta muraria: "Il nucleo fondamentale degli abitati è in genere medioevale e un tempo sorgeva isolato nella campagna, cinto di mura e con il castello che guardava la porta principale. A questo primitivo nucleo urbano facevano riscontro un certo numero di 'CasaIi', sparsi nel territorio, e che gravitavano sul centro principale - come a Matino i Casali del Bonamì, del Calorì, ecc. - Per varie ragioni (prima di tutte la crescente insicurezza derivante dalle numerose invasioni e scorrerie turche), la campagna fu progressivamente abbandonata dalla popolazione, che preferì addensarsi entro il perimetro fortificato. Nella campagna rimasesoltanto qualche 'masseria' in generale fortificata anch'essa. Ha così origine la tipica struttura sociale di questi centri, a prevalenza contadina, in sostituzione di quella medioevale, caratterizzata dalla presenza di una popolazione artigiana intorno alle dimore signorili. Ed ha inizio, anche l'affollamento: infatti gli inurbati tendono a riprodurre l'ambiente di provenienza (le corti del contado), e si ammucchiano in casupole raccolte intorno a corti e a piazzette che formano ancora oggi il tessuto dei nuclei antichi e ne costituiscono uno dei più gravi problemi sociali ed urbanistici" (4) nonchè igienico-sanitari che hanno portato specie in questi ultimi anni e assieme ad altri problemi a pericolose esplosioni di malattie infettive.
"Questi aggregati si sono conservati quasi intatti nel tempo. Infatti, nei successivi sviluppi, la popolazione ha preferito costruirsi la nuova casa in aree periferiche piuttosto che riattare o trasformare le casette (col tetto spiovente a 'cannizzo') del nucleo abitato" (5).
E' questa cristallizzazione nel tempo che, oggi, permette un'analisi degli aggregati suddetti dandoci un quadro esatto della situazione edilizia al livello della "civiltà contadina".
Una lettura semiologica ce ne evidenzia il rapporto fra forma urbana ed organizzazione spaziale ed espressiva degli strati dirigenti della struttura sociale, dall'autorità laica e religiosa, alla Chiesa, alla Piazza, al Palazzo o Castello.
In alcuni casi, poi, lo sviluppo si è arrestato completamente presentando i palesi caratteri dell'abbandono e del rifiuto dell'habitat esistente, magari ulteriormente sconvolto da nuove zone urbane distaccate dalle sedimentazioni storiche e perfettamente indifferenti al territorio su cui sono venute a sorgere.
Si profila così un duplice ordine di problemi: la perdita dei significati originali specifici della struttura di questi centri e il rapporto fra vecchio insediamento e nuova espansione.
E' da qui che si ripropone il consueto quanto assurdo meccanismo di crescita della città ove nessuna differenza è percepibile tra le nuove costruzioni in una qualsiasi fascia di sviluppo urbano di un insediamento qualsiasi.
In questo modo le nuove realizzazioni finiscono per espandersi progressivamente sulle zone circostanti, con assoluta indifferenza per l'immagine orografica del terreno, contrastando con l'agglomerato storico che presenta la propria stratificazione d'interventi in una complessità d'immagine ormai unitaria.
Da quanto esposto, di conseguenza, deriva una costruzione della città estremamente contraddittoria che vede, ancora oggi, come a Matino, il centro storico come "rifugio della parte più povera della popolazione, in case non solo prive di servizi igienici ma anche, a volte, cadenti" (6). E' a tutto questo che si deve aggiungere come il carattere chiuso dell'antico abitato non permetta facili interrelazioni con il resto dell'abitato sviluppatosi, da noi, più a valle su una arteria (via Roma) che ha messo decisamente in secondo piano e in crisi la via principale del vecchio nucleo (Via Vittorio Emanuele), da cui è derivato un evidente effetto di segregazione sociale e urbana.
Nasce, quindi, la consapevolezza che la soluzione dei problemi del centro storico non possa essere cercata in maniera isolata ma in relazione dell'intera situazione degli insediamenti: ad esempio, a Matino, gli insediamenti della collina e media collina dovranno essere Visti in rapporto allo sviluppo dell'abitato più basso e al processo che particolarmente in questi ultimi anni ha coinvolto l'agricoltura attraverso una massiccia "industrializzazione".
Infatti i modi secondo cui si organizza la produzione, insieme alle più generali condizioni sociali e culturali, concorrono a configurare l'insediamento, determinandone l'individualità.
Non ci meraviglino queste considerazioni dal momento che è stato ampiamente rilevato e documentato come nei territori affini al nostro, spesso, il degradamento del nucleo storico dipende dalla condizione di subordine cui è sottoposto il settore agricolo; ed è dall'esame di questo, dalle sue distorsioni, da che vanno tratte le possibili linee di sviluppo alternativo di riequilibrio, fondato su un equo rapporto tra i settori produttivi. E', infatti, agendo sopra i dati strutturali (cioè sui rapporti di produzione, sulla pianificazione della produzione, sulla distribuzione delle risorse) che è più credibile determinare quei mutamenti veramente capaci di cambiare o di 'restaurare' (e cioè di invertire processi quali l'emigrazione che portano all'abbandono delle campagne e degli abitati) e rivitalizzare un centro in un assetto più generale del territorio.
Nell'analisi del centro storico matinese, infatti, abbiamo modo di riconoscere che la sua struttura è costituita da un vero equilibrio dialettico tra la massima necessità di economia e i modelli culturali. In esso sono ben presenti linee logiche di assetto, di sviluppo e di relazioni spaziali e umane.
Per quel che concerne il piano generale di assetto del suddetto si può rilevare la decantazione spaziale che contraddistingue i diversi livelli di socializzazione che conducono gradualmente dallo spazio pubblico (la piazza o la strada principale), allo spazio semipubblico (la corte o il vico), allo spazio privato (la residenza).
E' lungo la strada principale o sulla piazza (che possiamo benissimo identificare con Via Vittorio Emanuele e Piazza S. Giorgio rispettivamente) che si trovavano i commerci e i servizi, come se la popolazione volesse affermare il carattere privato dei suoi rioni, localizzando l'animazione nello spazio pubblico. La strada principale e la piazza sono lo spazio a vocazione pubblica per eccellenza e invitavano i commerci e i luoghi di riunione ad installarsi in prossimità. La strada (la principale), dovuta al modo di crescere del nucleo antico in relazione alla particolare orografia (è interessante notare come questa si svolga su un'unica linea di livello) è stata così utilizzata come mezzo per difendere sociologicamente, psicologicamente oltre che politicamente lo spazio privato, l'immagine interna del nucleo da quella esterna.
A volte la semiprivatezza di una viuzza (o vico) o di una corte arriva a diventare appropriazione multifamiliare, mentre altre volte lo spazio semiprivato è separato dallo spazio pubblico da una porta che delimita la separazione tra la strada pubblica e il passaggio o la viuzza o la corte dal resto dell'habitat. Ciò, però, non avviene in senso assoluto; spesso è una viuzza direttamente aperta sulla strada che permette l'accesso alle corti private unifamiliari o alle corti semipubbliche.
Gli spazi interni dell'abitazione privata - laddove sono più di uno - si inscrivono logicamente nella continuazione degli spazi della strada, seguendo una gerarchizzazione e decantazione di privatezza crescente.
La corte unifamiliare è ad un tempo elemento di transizione tra la strada o il vico (rispettivamente spazio pubblico e semipubblico.) e lo spazio interno privato: è cioè uno spazio privato esterno. Praticamente, in generale, non si accede ad uno spazio privato interno direttamente dalla strada, specialmente laddove compare l'elemento di decantazione e intermeditazione: la corte.
La transizione tra esterno e interno si fa per appropriazione privatistica dall'esterno.
La corte - spazio architettonico capillarmente applicato nella costruzione del nostro nucleo abitato antico in scale diverse e con significati diversi, che vanno dall'associativo-distributivo al rappresentativo-celebrativo, alla sicurezza politico-sociale del gruppo stesso - ha diversi usi: è il deposito degli oggetti ingombranti o fuori uso: è il luogo del rapporto di vicinato; è un sistema di difesa.
Quando non piove, anche la lavatura dei panni - e la posizione delle 'pile' in alcune corti lo verifica -avviene in essa; e poi il gioco dei bimbi e le memorabili serate d'estate e primaverili trascorse nella corte per l'impossibilità di dormire dentro.
E' sempre nella corte che si può sovente attingere l'acqua (dalla cisterna da noi in posizione relativamente alta rispetto al livello del mare, dal pozzo là dove gli abitati sorgono in basso piano come nella vicina Taviano o nella più lontana Leverano), come adoperare il gabinetto quando non è proprio sulla strada.
A livello psicologico la corte è la possibilità di rafforzare l'intimità interiore rinviando all'esterno gli oggetti non indispensabili e non desiderati.
Si penetra dunque successivamente in spazi specifici che conducono gradualmente ad una appropriazione sempre più grande dello spazio. Tale gerarchia dal pubblico al privato costituisce una serie di schermi protettivi che definiscono la privatezza della casa, assicurando una continua transizione dalla comunità esterna alla privatezza interna.
Alla luce di quanto sopra, quale strategia bisogna intraprendere per riscattare Io stato di soggezione del centro storico quando non lo si voglia intendere come contenitore di sottosviluppo igienico e sanitario, di composizione stessa delle famiglie che lo vivono, abbandonato e dissanguato dalla emorragia emigratoria?
Certo è impossibile negli angusti limiti della nostra ricerca esaurire lo studio intrapreso del problema della condizione degli abitanti e del centro storico stesso in una prospettiva più ampia tendente a chiarirne le origini, il significato e le implicazioni di tale condizione e specificità.
Infatti, neanche a dirlo, questa ultima - nel nostro caso - è rappresentata dalla condizione di appartenenza ad un'area di sottosviluppo; anche se "lo sviluppo e il sottosviluppo economico sono due facce della stessa medaglia. In quanto tutte e due sono la manifestazione simultanea di contraddizioni interne ad uno stesso sistema. Infatti l'uno è strutturalmente diverso dall'altro trovando nello stesso tempo nel rapporto con l'altro la sua giustificazione. Il sottosviluppo si presenta, pertanto, come una realtà totalmente diversa dal non sviluppo, dal momento che quest'ultimo indica la situazione iniziale di una società non ancora coinvolta nè dagli effetti positivi nè da quelli negativi dello sviluppo" (7).
Il sottosviluppo è invece la conseguenza storica provocata dal tipo di sviluppo suddetto per cui esso non costituisce una realtà stabile, ma un processo dinamico che riproduce con segno opposto la crescita delle aree ipersviluppate.
In conclusione, cosa vuoi dire tutto questo in termini operativi?
A nostro avviso vuoi dire che se veramente vogliamo salvare il patrimonio esistente (e in primo luogo quello storico) dobbiamo sostenere che in questo momento non c'è poi quella bisogna di nuove costruzioni che tanto viene sventagliata e nello stesso tempo senza mai essere risolta; e questo, se nuove costruzioni, sistematicamente, deve significare rinvio, rimando di un problema che non può essere ulteriormente rinviato.
Si può individuare infatti proprio nel centro storico il momento e il luogo di un diverso, possibile modo di intervento su tutto il territorio. Diventa indispensabile, quindi, ai fini di realizzare questo momento, attuare una politica di intervento pubblico anche nel rinnovamento urbano, iniziando proprio dal centro storico la riqualificazione sociale (e non solo economica) del patrimonio edilizio esistente e in prospettiva applicando anche nei centri storici i piani di edilizia economica e popolare.
Infatti alla luce della legge n. 865 del 1971 "l'attività di risanamento e di riassetto dei centri storici non deve essere necessariamente regolata da piani di risanamento. Possono provvedere ad essa anche i piani regolatori generali o i programmi di fabbricazione o altri strumenti urbanistici, così come i piani per l'edilizia economica e popolare, anche se questi ultimi mantengono il carattere speciale per quanto attiene alla destinazione delle zone risanate o restaurate a favore di un determinato uso per determinati soggetti. Dall'altro lato, il riassetto dei centri storici non deve necessariamente consistere nella demolizione di ogni costruzione nella zona da risanare, ma può consistere in interventi più articolati, che comportano demolizioni, ricostruzioni, restauri, costruzioni di nuove opere" (8).
Evidentemente siamo lontani ormai dalla teoria della demolizione-sventramento che hanno comportato in molti casi di 'risanamento' la totale demolizione.
"Risanamento" non significa più diminuzione forzata dei nuclei urbani antichi di altri abitanti; al contrario deve significare anche per noi consentire alla popolazione che costituisce la vita, la storia e la vitalità di tali centri, di rimanere nel proprio ambiente e per quanto possibile nelle proprie abitazioni 'restaurate': di, tornare per continuare a vivere e a lavorare dove è nata e cresciuta.

NOTE
1) M. FABBRI, L'urbanizzazione della società rurale, in G. Baglieri. M. Fabbri L. Sacco, "Cronache dei tempi lunghi", Lacaita Editore, Manduria 1965, p. 256
2) M. FABBRI, op. cit., p. 256
3) M. FABBRI, ibidem, p. 257
4) M. FABBRI, ibidem, p. 257
5) M. FABBRI, ibidem, p. 258
6) M. FABBRI, ibidem, p. 259
7) S. CASILLO, Le condizioni degli abitanti del centro storico di Salerno, in Riv. "Basilicata" n. 1-2 Roma 1975 p. 55
8) A. PREDIERI, L'espropriazione di immobili nei centri storici per l'edilizia residenziale pubblica secondo la legge n. 865 del 1971, in P. L. Cervellati R. Scannavini (a cura di), Bologna: politica e metodologia del restauro nei centri storici, Il Mulino, Bologna 1973 p. 51


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