§ Tradizioni artistiche del Salento

La fontana greca




Luciano Milo



Posta di fronte all'antica chiesa del Canneto, ferma sulla pietra miti e leggende che furono patrimonio del mondo classico. I distici incisi, nelI'interpretazione di uno studioso innamorato dell'arte e della cultura gallipolina.

Una volta non c'era il grattacielo a sommergere con la sua ombra la fontana greca di Gallipoli. Quella che, secondo la tradizione e secondo le fonti letterarie e storiche (come riferiscono Arduino Colasanti e Corrado Ricci), è la più antica fontana della penisola, situata di fronte all'antica Chiesa del Canneto, nelle immediate vicinanze del "ghetto", una volta abitato dai giudei, aveva d'intorno spazi liberi, che dominava: ultimo monumento di terraferma, quasi si specchiava nelle acque del vecchio porto gallipolino. L'isola era di fronte, cucita dal ponte seicentesco. Difendeva quest'isola (la vera Gallipoli) il cinquecentesco, castello col Rivellino. Per chi, come me, ha memoria diretta di questo luogo, e dei tempi in cui non si erano ancora perpetrati tanti scempi edilizi, il colpo d'occhio era stupendo. La fontana quasi segnava l'ingresso nel borgo, nel tessuto urbano di Gallipolis, autentico esempio di architettura spontanea che, in secoli di arricchimento, aveva creato una splendida topografia, ininterrotta, dai giorni della protostoria a quelli della storia medioevale di questa superba città ionica.
L'incontro con la fontana greca era dunque di obbligo, da qualunque parte del Salento si giungesse. E prima che giungessero nella città le acque delle condotte forzate di un fiume campano, il Sele, questa fontana dissetò gli uomini con le sue vene purissime e con una perennità sorgiva che risaliva lontano nel tempo, se è vero che, come vuole la tradizione, il popolo lo disse eretta nientemeno che dal latino poeta Virgilio.
La fontana si alza su quattro basamenti, sui quali poggiano due busti di uomini e altrettanti di donne, cariatidi incastonate, dalle cui teste emergono quattro capitelli. Più su, i capitelli, l'architrave, il fregio, le, ultima, da cornice. La facciata, dunque, risulta divisa in tre parti uguali. Alla base, tre vasche, ciascuna delle quali è sostenuta da un puttino: vi si raccoglievano le acque versate da varie parti dei corpi; da qui, tracimavano nella grande vasca che si allargava ai piedi dell'intera fontana.
In bassorilievo, sulle tre parti della facciata, le metamorfosi di Dirce, di Sàlmace e di Biblide.
Secondo la ricostruzione di un attento studioso locale, Sebastiano Verona, nel primo riquadro, a sinistra di chi guarda, si vede Dirce distesa sul suolo: presso di lei, due topi; sopra, Bacco che, secondo la tradizione mitologica, avrebbe trasformato Dirce in una fonte. Sopra la testa del dio, il distico:

Antiopae rabie mea stillant membra furorem zelotypum caveas qui bibis hanc phrenesim.

(Nella traduzione del Verona: Il furore (l'ira) di Antiopa rabbiosamente zampilla da tutto il mio corpo. Temi la gelosia tu che bevi al tumulto di questa mia linfa refrigerante.

Dunque, secondo l'ignoto artista, la favola dovrebbe ispirare orrore per la gelosia.
Al centro della fontana greca, la vicenda di Sàlmace, ninfa naiade. Sono rappresentati due corpi distesi, avvinti da un laccio teso dalla donna, (Venere), che li sovrasta, avendo vicino Cupido. Sopra Venere, è inciso l'epigramma 99 di Ausonio:

Salmacis optato concreta est nynpha marito
foelix virgo sibi si scit inesse virum
at tu formosae juvenis permiste puellae
bis foelix unum si licet esse duos.

La traduzione veroniana:
La ninfa Salmace fu pietrificata
dopo avere scelto (bramato) marito.
Felice la donna se la presenza del suo uomo
sempre in sé rammenta.
Ma (più) beato sei tu
giovane che assapori due volte
l'amplesso di graziosa fanciulla.
A te solo infatti è concesso
questo fortunato sdoppiaggio.

Secondo Sebastiano Verona, "con la rappresentazione di questa favola si era cercato di fortificare i cuori contro la seduzione di quei piaceri, che tolgono il coraggio ed illanguidiscono gli spiriti".
Terza parte, favola di Bìblide, che, secondo la tradizione classica, concepì un amore incestuoso per il fratello Cauno. Ravvedutasi, profondamente pianse questa sua insana passione, sicché gli dèi, mossi a pietà, la trasformarono in fonte presso il Monte Chimera, in terra di Licia. Nella rappresentazione scultorea della fontana greca, Bìblide giace sul suolo. Sopra di lei, il fratello, colto nell'atto di fuggire. Sulla testa di Cauno si legge il distico:

Biblis amara vocor dulcem tu surge mammillam
pristin' infoelix odia versat amor.

Nella traduzione del nostro Autore:
Bìblide amara (triste) mi chiamo:
succhia alle mie dolci mammelle.
Un amore infelice ti riversa
la pena del mio antico castigo.

Dalle mammelle di Bìblide scaturiva l'acqua che dissetava i gallipolini. Il distico, di evidente contenuto etico, metteva in guardia dalle passioni invereconde. Scrisse l'Alberti a proposito di queste tre parti della facciata: "Così le tre antiche eroine attraversarono qui la loro metamorfosi mitologica, ma ancora maggiore metamorfosi ha assegnato loro non la mitologia, ma lo stesso tempo, che le ha molto corrose. Esse sono la prova evidente della transitorietà della giovinezza e della bellezza".
Sul frontone, nel fregio, Ercole che lotta contro il leone Nemeo e l'idra di Lerna: "la forza, libera dalla voluttà della carne, domina le passioni anche violente", nelI'interpretazione - che ci pare assai pertinente - del Verona.
Sull'estremo architrave, infine, sono scolpite delle cifre, che lo studioso e l'interprete tende a riferire a una probabile restaurazione in tempi successivi:

Quinto Nonas Aprilis Aere Municipali Acquae
Optime Extructo
Monumento Deo Iuvante Usus Est Restitutus
Salutis Anno...

( V N A AE M N O E M D I U S R S A )

L'interprete annota che non v'è traccia dell'anno in alcun documento.
Infine, intorno al 1560, durante il dominio del secondo Filippo di Spagna, la fontana greca divenne un pò meno greca: la si decorò, in cima, con lo stemma del sovrano, e con quello civico di Gallipoli. Nel XVIII secolo fu addossata la facciata ora visibile, prospiciente l'ingresso alla città vecchia. Su una lastra di marmo si incise questa iscrizione:

Acquaeductum
et fontem hunc vetustate collapsum
D. Nicolaus Doxi Stracca generalis syndicus
ad pubblicam civium viatorumque commoditatem
arere pubblico reficiendum
curavit

Anno Domini MDCCLXV

Oggi, questo splendido esempio di arte greca, che fu "ornata di molte statue con cinque bocche d'acqua perfettissima", com'ebbe a scrivere il Crispo, ispira ancora poeti e pittori. Come accadde per italiani e stranieri nel passato, dal De Préz a Giangiacomo Lazzari, dal Catalano al Montuori, al Flora, allo stesso D'Annunzio che, qui fermandosi durante il suo viaggio per l'"Ellade Santa", trasse ispirazione per la terza laude di "Laus Vitae".


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