§ Le inchieste della Rassegna

MEZZOGIORNO Continente Sud




Realizzazione
ALDO BELLO
Testi e statistiche
GUGLIELMO TAGLIACARNE:
Hanno collaborato
Ricerche letterarie
Ada Provenzano
Ricerche storiche
Pino Orefice
Ricerche economiche
Claudio Alemanno
Sezione grafica
Sandro Gattei
Sezione fotografica
Folco Quilici
Giuliana Calabrese




Otto paesaggi economici, sociali, culturali: e, all'interno di ciascuno di essi, arcipelaghi etnici, topografici, altimetrici, linguistici, folcloristici, religiosi. Dalla federazione di questi mondi, accomunati da una storia che fu grande e illuminò per prima il mondo, e da una decadenza che persiste ai nostri giorni, è nato il pianeta Mezzogiorno con una sua filosofia e una sua concezione fatalistica della vita, con il ritmo della fantasia, con la disponibilità all'avventura migratoria, con un colore della pelle.


Superfici di 34 capoluoghi di provincia, dai confini con il Lazio, l'Umbria e le Marche al cuore del Mediterraneo, solcate da una catena appenninica che divide verticalmente il Sud, dandogli le altitudini medie più vaste della penisola, ove si sono diffuse per secoli le colture estensive dei cereali. In Puglia, in Sicilia, in Sardegna le pianure più estese. Irregolari i corsi d'acqua, per molti dei quali si attendono ancora le opere di bonifica. Massima altitudine, quella dell'Etna, il maggior vulcano europeo. Capitale morale, Napoli.

Deep Souths

Aldo Bello

Degli otto Sud che formano il più antico Sud del mondo, (Puglia, Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia, Sardegna, Abruzzo, Molise), il più grande è cinque volte più grande del più piccolo, il più popolato ha sei volte più abitanti del meno popolato, il più arido non riceve più acqua dell'Estremadura, più umido non ne riceve meno del Gabon, quello colonizzato da più tempo aveva un'architettura ai tempi di Pericle, il più recente non ne aveva ai tempi di Pio nono, il più agricolo miete più cereali delle regioni del "Triangolo", il più industrializzato ha meno ciminiere del solo hinterland milanese.
Otto Sud. Ma all'interno di essi alternano molti altri Sud.
Quanti? Difficile contarli. Non hanno steccati precisi, definitivi.
Non esistono barriere tangibili. Ma proprio per questo le barricate sono troppe e sembrano indistruttibili. Sono almeno una per ogni area etnica, topografica, altimetrica, linguistica, culturale, economica. religiosa. Il fenomeno di coesione che ha tenuto insieme questi molti Sud, chiudendoli nel circuito di un solo Mezzogiorno è uno degli aspetti più straordinari della nostra storia moderna. La sua spiegazione presenta le stesse difficoltà che incontrano i fisici quando esaminano le poderose forze che legano il nucleo all'atomo. La scienza parla di particelle e antiparticelle, di cariche elettriche positive e negative, di catene di azioni e di reazioni. Questi molti Sud hanno tutte le forme, dalle regolari geometrie ai tracciati più complicati dei vecchi recinti balcanici.
Hanno posizioni opposte su problemi economici, sociali e morali di identica natura. Alcuni tendono al superamento dei loro angusti orizzonti, creato da una storia in fondo comune a tutti, e certamente assai più tragica che grande; altri, i più, malgrado il salto di qualità registrato in questi ultimi decenni, restano vincolati alle antiche culture locali. Tutti quanti hanno un proprio indistruttibile passato, sempre assai più nobile del passato degli altri: una propria arte; una propria letteratura; un'annalistica; un martirologio; una mitologia. Dappertutto sopravvivono il culto e i riti delle memorie paesane. Cioè: i morti comandano. Nel cuore di ciascun Sud pulsa il ricordo di una bandiera, di una capitale, di una repubblica marinara, di una marca feudale, di una lega, di una contro alleanza, di un giorno di gloria o di sven-tura. E sono ricordi accaniti.
Dalla federazione di questi contrasti è nato un patriottismo, con la caratteristica di tutti i patriottismi: l'orgoglio e la diffidenza nei confronti del vicino. Questi Sud sono una costellazione di corpi mossi da una comune forza centripeta. Ma in realtà essi non si attraggono. Si fronteggiano, soprattutto per coppie. Si è ovunque particella e antiparticella; si è dappertutto il nordista o il sudista di qualcuno. C'è, qualche volta, una pelle più chiara o una pelle più scura. Si è più agricoli o più industriali. Più imprenditoriali, affaristi, bucanieri, magliari, superstiziosi, mafiosi. Centinaia di paesaggi sociali in conflitto, alle soglie del ventunesimo secolo, non sempre si rassegnano di fronte all'urto di una storia che pure li dovrà portare allo smantellamento delle strutture arcaiche che sono state all'origine della loro protostoria e la proiezione della loro storia minima.
La storia maggiore del Mezzogiorno, infatti, non ha conosciuto frontiere. Il pensiero che essa ha generato ha negato, superandole, quelle barriere "naturali" che furono il sogno mostruoso di una lunga età, dal feudalesimo al Romanticismo. Quel pensiero, con gli studi di filosofia, di algebra, dì astrologia, di geografia, di medicina, di politica, di filologia, di musica, per primo entrò nella storia del mondo, quando il mondo era ancora e soltanto Europa. Al di sopra e al di là dei molti Sud, che caratterizzano il ghibellinismo di campanile del Mezzogiorno, è esistito un continente culturale la cui geografia molto sommaria corre sul filo di Pitagora, Orfeo, Alcmeone, Ennio, Orazio, Cassiodoro, Gioachino da Fiore, Telesio, Gravina, Campanella. Giannone, Vico, De Sanctis, Galluppi, Genovesi, Cilea, Capuana, Verga, e poi gli storici e gli economisti meridionalisti, e poi ancora Jovine, D'Annunzio, Alvaro, Croce, Gramsci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa... Come questo continente per tanto tempo abbia potuto rinunciare a un primato politicoeconomico, o per lo meno al diritto di presentarsi come entità omogenea, compatta, con identici interessi e tendenze, è un problema complesso che solo da poco la pubblicistica va mettendo in evidenza. Non si può capire il Mezzogiorno vecchio e nuovo - con i suoi motti Sud - se non si tien conto di tutto ciò.

PROFILI DELLE REGIONI DEL MEZZOGIORNO

Mezzogiorno

Guglielmo Tagliacarne, Sandro Gattei

Dopo aver presentato, nei numeri precedenti, una analisi sulle singole regioni del Sud, riteniamo utile aggiungere anche un profilo sul Mezzogiorno nel suo complesso.

Territorio e popolazione

Il Mezzogiorno si estende su una superficie territoriale di Kmq 123.044,65, di cui il 28,4 per cento è costituito da montagna, il 53,2 per cento da collina e il 18,3 per cento da pianura.
La popolazione residente, al 31 dicembre 1976, è di 19.843.265 abitanti pari al 35,2 per cento del complesso nazionale, una quota sensibilmente inferiore a quella relativa alla superficie (40,8 per cento).
In un quarto di secolo, dal 1951 al 1976, la popolazione del Mezzogiorno è aumentata del 12,2 per cento, contro un aumento del 18,5 per cento dell'Italia in complesso. Fra le regioni meridionali gli aumenti più elevati si sono riscontrati in Sardegna (22,9 per cento) e in Campania (22,8 per cento). Per contro, si sono avute diminuzioni in Abruzzo ( -4,4 per cento), nel Molise ( - 18,8 per cento) e in Basilicata ( - 1,6 per cento). Di seguito riportiamo, per le regioni del Mezzogiorno, la popolazione residente alla fine del 1976 e la variazione percentuale rispetto al 1951;


Per dare una misura effettiva del movimento migratorio che ha colpito il Mezzogiorno è da rilevare che dal 1951 al 1976, contro un incremento naturale (nati meno morti) di 6.226.465 unità, si èavuto un aumento di appena 2.157.841 abitanti. Per cui, le persone che nel periodo suddetto si sono trasferite nell'Italia centro-settentrionale e all'estero ammontano a 4.068.624.
Negli ultimi anni l'emigrazione verso l'estero ha subìto una diminuzione assai sensibile, ma non per il miglioramento delle condizioni di vita delle regioni meridionali, ma per l'attuale crisi economica che tocca, in misura diversa, tutti i Paesi, con la conseguente difficoltà di trovarvi lavoro. Da una media annua di 137.000 emigrati nel periodo 1951-1955 si è passati ai 223.000 nel 1961-65, per scendere ai 77.000 del 1971-75 e ai 56.000 attuali. Dal 1972 il numero dei rientri supera quello degli espatri.
Il tasso di natalità è pari a 17,2 nati vivi per 1000 abitanti, superiore a quello del complesso nazionale (13,9). Valori più elevati si riscontrano in Campania (18,9) e in Puglia (18,5). La mortalità infantile ha subìto, nel corso degli anni, una costante diminuzione. Da 82,4 morti nell'anno di vita su 100 nati vivi nel 1951, si è scesi, nel 1976, a una quota del 22,5 che è però ancora notevolmente superiore a quella della media italiana (19,2).

Reddito e consumi

Il reddito prodotto nel 1975 è stato calcolato in 27.121.200 milioni di lire, pari a 1.380.000 lire per abitante. La cifra pro capite è inferiore del 31,2 per cento a quella della media nazionale, il che dimostra come la distanza tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord sia ancora molto grande. Valori più modesti si riscontrano nel Molise, in Basilicata e in Calabria. Il Molise, la Basilicata e la Calabria sono anche le regioni in cui si ha la quota più elevata di reddito proveniente dall'attività agricola. La Basilicata detiene, invece, la più alta quota di attività industriale, anche se in realtà l'industria non rappresenta un settore rilevante in valore assoluto.

La produzione del Mezzogiorno non sufficiente a coprire il fabbisogno per i consumi e investimenti. Infatti, come si è già detto, il prodotto lordo nel 1975 è ammontato a 27.121,2 miliardi di lire, mentre i consumi sono stati di 25.850,0 miliardi e gli investimenti di 6.954,4 miliardi. Pertanto, gli impieghi (consumi + investimenti) sono stati di 32.804,4 miliardi di lire, superiori di 5.683,2 miliardi a quella del prodotto lordo. Questa cifra rappresenta il valore delle importazioni da altre regioni italiane e dall'estero.
Un esame su alcuni consumi non alimentari, sufficientemente rappresentativi del livello di vita della popolazione, ci mostra come il Mezzogiorno stia a un livello decisamente inferiore alla media nazionale.

Anche in questo caso le regioni più arretrate sono il Molise, la Basilicata e la Calabria.

Disoccupazione

Gli iscritti agli uffici di collocamento nella I e II classe (persone in cerca di prima occupazione e persone che hanno perso l'impiego) sono risultati, alla fine del mese di agosto 1977 (ultimo dato disponibile), 872.563, pari al 60,4 per cento del totale di tutta Italia. Rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, si è avuto un aumento del 27,5 per cento, di poco inferiore a quello registrato per il complesso nazionale. Particolarmente grave è la situazione della Campania dove si rileva oltre il 37 per cento del totale dei disoccupati del Mezzogiorno. Le iscrizioni alle liste speciali di collocamento per i giovani da 14 a 29 anni sono state 396.538, pari al 61,3 per cento di tutta Italia.
Nei primi nove mesi del 1977 la Cassa integrazione guadagni ha concesso 32.325 mila ore (gestione ordinaria) con una diminuzione, rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, del 10,8 per cento.

Istruzione

I progressi della scuola nel Mezzogiorno costituiscono un fatto importante per lo sviluppo futuro delle attività civili ed economiche di queste regioni. Gli incrementi della scolarità riguardano sia le scuole dell'obbligo che, specialmente, le scuole secondarie superiori che testimoniano la volontà della popolazione meridionale ad istruirsi al di là del livello obbligatorio. Alla domanda così elevata di istruzione non corrisponde però una attrezzatura scolastica sufficiente; la percentuale di alunni costretti a doppi e tripli turni è infatti molto elevata.

Turismo

Il settore turistico nel Mezzogiorno sta registrando uno sviluppo notevole. Rispetto alle 17.947 mila presenze registrate nel 1961 se ne sono avute, nel 1976, 49.386 mila. L'incremento riguarda anche il turismo straniero passato, nello stesso intervallo di tempo, da 4.078 mila a 10.161 mila presenze. Tuttavia, nonostante l'incremento notevole, il flusso turistico è sensibilmente inferiore a quello che le regioni meridionali richiamano per le loro bellezze naturali, storiche e artistiche. Indispensabile è aumentare le disponibilità alberghiere ed extralberghiere che attualmente sono costituite da 650.000 posti letto.

Commercio estero

Secondo le rilevazioni effettuate dall'Ufficio Italiano dei Cambi sui movimenti valutari con l'estero nel 1976, le esportazioni sono ammontate a 1.739.700 milioni di lire, mentre si sono avute importazioni per un valore di 1.916.006 milioni con un saldo negativo, quindi, di 176.306 milioni. Saldi attivi si sono riscontrati in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia.

I prodotti maggiormente esportati sono costituiti dalla frutta, da prodotti chimici organici, concimi, combustibili minerali e oli minerali, macchine e apparecchi elettrici. I Paesi più importanti sono la Francia e la Germania Federale, mentre per le importazioni rilevanti sono anche le provenienze dagli Stati Uniti.

Considerazioni finali

Nonostante l'impegno e i notevoli sforzi finanziari, il Mezzogiorno è ancora assai lontano :dal raggiungere un livello di vita soddisfacente. L'annullamento del divario esistente con l'Italia centro-settentrionale rappresenta ancora oggi una utopia.
Il Mezzogiorno è caratterizzato da un elevato tasso di natalità, nonché da una mortalità infantile ancora al di sopra di limiti accettabili. Carenze si riscontrano nell'edilizia scolastica e, nonostante l'aumento delle disponibilità, la situazione dell'approvvigionamento idrico è ancora assai insufficiente. Altre gravi carenze riguardano i servizi esistenti all'interno delle abitazioni (numerosissime sono quelle mancanti di acqua e di gabinetto), il settore sanitario e soprattutto la cronica mancanza di posti di lavoro.
Tre regioni si distinguono per il loro grado di estrema povertà e sono il Molise, la Calabria e la Basilicata. Chiari segni di arretramento si hanno in Campania, dove la disoccupazione ha toccato livelli insostenibili. Per contro la Puglia è la regione che presenta i maggiori sintomi di miglioramento e che si sta dando una struttura industriale di notevole entità.

La questione meridionale

Paolo Coteni

Denominazione specifica, a partire dall'Unità d'Italia, di un antico e grave problema della penisola.
Quello del Mezzogiorno è in sostanza un problema di aree depresse, che affonda le sue radici nel diverso sviluppo storico che contraddistinse le regioni a sud del Tronto e del Garigliano rispetto al resto d'Italia: debole consistenza dello sviluppo dei Comuni; debole tessuto cittadino; persistenza del feudalesimo (abolito sul piano giuridico solo nel periodo napoleonico); scarsità delle attività commerciali e manifatturiere; ristrettezza del mercato. Quando con l'inizio del XVI secolo si instaurò in Italia il predominio spagnolo, gli Spagnoli non si preoccuparono minimamente di impostare una politica economica che potesse dirsi di restaurazione e di riunificazione del mercato, la stessa Spagna essendo un paese in decadenza commerciale. Di qui, le caratteristiche che già avevano colpito T. Campanella, F. Filangieri, G. M. Galanti, Pietro Colletta, e che colpirono i "Piemontesi'' quando, dopo la conquista-liberazione del Sud, nel 1860 intrapresero la politica di unificazione (Cavour, Farini, Medici, Bertani, ecc., e via via i governi della Destra storica): città sovrappopolate quali Palermo e Napoli, che sopravvivevano su innumeri attività terziarie (a cominciare dalle attività di lusso che avevano interessato la corte o la nobiltà che vi consumava le proprie rendite), entroterra arretrati per regime fondiario, irrigatorio, creditizio, stradale, ecc.; analfabetismo assai maggiore che nel Nord; organizzazioni criminali, quali la camorra e la maga; renitenza ella leva; fenomeno del brigantaggio. Più grave di tutte, la mancanza di spirito associativo e imprenditoriale, donde la mancanza di quel concorso di capitali manifatturieri e creditizi in grado, unendosi, di creare nuclei espansivi di iniziative industriali capaci di riflettersi anche nei confronti della campagna.
Dopo la fine del dominio spagnolo, fin dai primi anni del Settecento, erano stati avviati tentativi di ammodernamento, dapprima con Carlo III di Borbone" poi con Ferdinando primo all'epoca del ministro Tanucci, e poi, nel periodo francese, con le leggi radicali del Murat miranti a colpire i più vistosi privilegi curiali e feudali, e con il tentativo, sempre nel periodo muratiano, di incoraggiare il formarsi di una piccola proprietà contadina (questione demaniate). Nei primi decenni dell'Ottocento, allorché ormai nell'Europa evolutasi era sviluppatala rivoluzione industriale, vi furono veri e propri tentativi di formare poli di sviluppo, incoraggiando l'insediamento di imprenditori stranieri (quali SchIaepfer, Wenner, Egg, Escher, ecc.). Nel frattempo, la pubblicistica meridionale più avanzata (da G. Riccardi a Carlo De Cesare, a S. Cagnazzi, a L. Bianchini) manifestava l'urgenza di creare un ceto medio imprenditoriale e non semplicemente curiale, consolidato abbastanza da fare salda la compagine di iniziative, e non soltanto un occasionale tentativo di pionierismo forestiero.
Dopo il 1861, una volta che il problema del Mezzogiorno divenne "questione" di tutta l'Italia, la presa di coscienza nazionale del problema si andò poco alla volta allargando. La Destra storica ne ebbe una visione prevalentemente pedagogica e moralistica ("educazione" delle plebi meridionali), certo interessante e indispensabile all'inizio, e poi nazionalistico-repressiva, soprattutto contro i moti del brigantaggio e quelli per l'imposta sul macinato, che sollevarono il timore di una secessione del Mezzogiorno, timore ingigantito dall'incapacità di vedere le radici profondo dei moti stessi da parte delle classi dirigenti.
Quando il malcontento delle plebi incominciò a prendere una veste ideologica, fu dapprima influenzato dall'anarchismo di Bakunin e dagli aderenti italiani alla Prima Internazionale, e poi dal socialismo di orientamento marxista del partito dei lavoratori italiana sempre con, venature anarcoidi (fasci siciliani del 1893-1894), sollevando così la preoccupazione delle classi dirigenti, che fecero ricorso a strumenti repressivi per soffocare il malcontento. Intanto, la pubblicistica sulla questione meridionale affrontava e approfondiva il problema: P. Villari scriveva le Prime e poi le Seconde lettere meridionali (1861 e 1875). Franchetti e S. Sonnino compivano inchieste nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia (1876) e formavano una sorta di gruppo di studio dell'intero panorama politico-sociale italiano, in cui il problema del Mezzogiorno aveva grande parte (La rassegna settimanale). Ai due studiosi toscani si affiancavano e succedevano acuti pubblicisti e statistici meridionali: G. Fortunato, F. S. Nitti, A. De Viti De Marco, N. Colajanni, G. Salvemini. L'insieme di questa attività, affiancata da inchieste parlamentari (quella Jacini e quella Faina) fece emergere alcune linee critiche di fondo: le une concordavano con quanto taluni pubblicisti meridionali (come L. Bianchini e. C. De Cesare) avevano tempestivamente avvertito: che cioè l'unificazione del 1861, con la meccanica trasposizione della legislazione amministrativa e fiscale piemontese al Mezzogiorno, aveva imposto a quest'ultimo la legge del più forte: aveva soffocato quel tanto di industria locale che stava faticosamente nascendo, aveva imposto un gravame fiscale inadeguato, illanguidendo sempre più un organismo già debole. Un secondo elemento venuto alla luce fu che il Nord, come zona d'Italia indiscutibilmente più avanzata, dopo l'unificazione aveva fatto la parte del leone in fatto di infrastrutture stradali, ferroviarie, scolastiche, eccetera, drenando, attraverso la tassazione, i prestiti pubblici, le banche private, e gran parte delle risorse dal Sud. (Fu specialmente F. S. Nitti a svolgere questa linea di discorso). Un'altra linea ancora fu quella della denuncia del "blocco storico" che si era venuto creando fra protezionismo industriale del Nord e protezionismo agrario dei latifondisti del Sud, a spese delle masse contadine meridionalii (G. Salvemini, e poi A. Gramsci).
In realtà, era stato proprio - e per primo, con consapevolezza storica e politica - il Cavour colui che si era reso conto della gravità e della complessità del problema: "Armonizzare il Nord col Sud - aveva detto - presenta altrettante difficoltà di una guerra contro l'Austria o della lotta con Roma". E' vero che al momento dell'unificazione lo squilibrio fra Italia settentrionale e meridionale era meno accentuato di quanto non fosse poi destinato a diventare; ma era tuttavia già evidente la profonda differenza tra le strutture civili, sociali ed economiche delle regioni del Nord avviate ad un'economia di tipo continentale, con zone già industrializzate con un'agricoltura in parte ispirata a metodi moderni, e quelle del Sud, legate a un'economia profondamente arretrata, ispirata ancora a rapporti talora patriarcali, ma più spesso feudali, dove all'assenteismo dei grandi proprietari corrispondeva il misero tenore di vita dei contadini, la condizione, spesso tragica, della massa dei braccianti, e la profonda disgregazione sociale di tutto l'ambiente. La radice del problema stava nella sproporzione esistente tra reddito agrario e popolazione.
Nonostante l'ampiezza dei demani disciolti e dei beni, soprattutto ecclesiastici, alienati dallo Stato, il tentativo di diffondere la piccola proprietà non riuscì: la terra rifluì soprattutto nelle mani di borghesi che erano già proprietari e quindi in grado di possedere il denaro per acquistarla. La condizione dei contadini, degli affittuari, dei braccianti alle dipendenze di proprietari in genere più esigenti degli antichi, peggiorò invece di migliorare. Un sintomo, assai significativo, della gravità della questione si rivelò all'indomani dell'Unità, quando esplose quel brigantaggio, utilizzato dall'ultimo re borbonico, Francesco II, rifugiato in Vaticano, in funzione legittimista, che fu in realtà provocato dal profondo disagio economico e sociale delle regioni meridionali.
L'intervento massiccio dell'esercito regio, le condanne largamente comminate, le rappresaglie sanguinose e spesso crudeli, le fucilazioni con cui i governanti reagirono, dimostrarono chiaramente che la coscienza del problema non era chiara alla classe dirigente di allora, quasi tutta originaria dell'Italia settentrionale o centrale, che vide nel brigantaggio solo un fenomeno di delinquenza comune. Si sentì tuttavia il bisogno di un'inchiesta parlamentare, che ebbe nel 1862 relatore il Massari, e che fu la prima rivelazione ufficiale della gravità e delle dimensioni del problema. Qualche anno dopo, Sonnino e Franchetti conducevano per conto loro l'inchiesta cui abbiamo accennato, e ne esponevano i risultati in due volumi ricchi di notizie e di dati dove, per la prima volta, la questione meridionale era messa a fuoco soprattutto nei suoi termini sociali ed economici. Nel 1875 veniva decretata dal Parlamento un'ulteriore inchiesta per accertare le condizioni della Sicilia. Sollecitata dall'interesse sempre più vasto della classe politica e dell'opinione pubblica, la questione meridionale venne sempre più agitata e discussa, e, negli anni successivi, parecchi studiosi, tra i quali emergevano Pantaleoni, Nitti, Carano-Donvito, dimostrarono, con indagini spesso assai pregevoli, che era il Mezzogiorno a sopportare un onere fiscale in relazione ai suoi proventi, superiore a quello del Nord, mentre il denaro statale per le opere pubbliche veniva indirizzato prevalentemente a Settentrione, e molti capitali meridionali, anche attraverso il sistema dei risparmi postali venivano di peso trasferiti fuori del Sud. Verso la fine del secolo, il problema ebbe risonanza ancor più vasta e delineazione storica più precisa attraverso l'opera di Giustino Fortunato che, sfatando il luogo comune che il Mezzogiorno fosse "un paradiso abitato da diavoli", documentò come, al contrario, la natura fosse ingrata e poverissima; la geografia, il clima, il suolo, le malattie avevano dato vita in quelle regioni a una civiltà profondamente diversa da quella del Nord. Non bastava affrontare il problema con "leggi speciali" come quella che, di tanto in tanto, si votavano nel Parlamento. Soltanto una sana finanza nazionale e locale, una occulta legislazione fiscale, l'adozione del libero scambio, e, soprattutto un regime di raccoglimento e di pace alieno da ogni avventura, e che ponesse le esigenze nazionali al di sopra di quelle dei partiti avrebbe potuto risolvere, durevolmente, il problema del Mezzogiorno, quella frattura tra le "due Italie" che rimaneva (come con analoghi argomenti aveva dimostrato De Viti De Marco) la più grave remora alla creazione di un paese moderno.
Ma fu proprio quello il periodo in cui le posizioni liberiste dei primi anni dell'Unità vennero abbandonate per far sempre più posto a un protezionismo doganale (in parte, forse, imposto dalle circostanze; e in più gran parte ottenuto con forti pressioni esercitate sul governo) in seguito alla trasformazione in corso della struttura italiana da prevalentemente agricola a parzialmente industriale. Soprattutto il triangolo Milano-Torino-Genova si avviava fin da allora a diventare la zona propulsiva e pilota della metamorfosi in atto, alla quale il Sud lontano, povero e arretrato, restava quasi del tutto estraneo, aggravando così il distacco e lo squilibrio con le regioni settentrionali. Nemmeno l'agricoltura riusciva nel Sud ad adottare metodi moderni, né ad indirizzarsi, come allora sarebbe stato augurabile, alle colture intensive: i proprietari sviluppavano infatti la cerealicoltura da cui, grazie ai forti dazi doganali nei confronti del grano estero, potevano trarre maggior profitto, mentre le misure doganali italiane provocavano, per ritorsione analoghe misure da parte degli altri Stati, e rendevano quindi spesso difficili e precarie le esportazioni degli ortaggi, degli agrumi, dei vini, prodotti tipici del Mezzogiorno.
Con il nostro secolo, la politica coloniale di Crispi, con tutti i suoi errori, era in realtà ispirata anche a venire incontro alla "fame di terra" dei contadini meridionali. Fallita anch'essa, clamorosamente, da Adua in poi, (perché si conquistarono aree desertiche), fin dall'ultimo decennio dell'Ottocento l'emigrazione, soprattutto quella transoceanica, parve l'unica valvola di sfogo rimasta alla povertà e alla sovrappopolazione del Sud. Essa venne notevolmente aumentando nei primi anni del nuovo secolo, fino a raggiungere, nel 1913, poco più di 700 mila unità umane! Basilicata e Calabria fornivano il contingente maggiore: seguivano Sicilia, Campania, Puglia.
L'allontanamento di un numero così ingente di lavoratori, in gran parte giovani, rese più difficili la prosecuzione e l'allargamento, nelle campagne, delle colture pregiate. La conquista della Libia, nel 1912, fece sorgere qualche illusione sulla possibilità di popolamento della nuova colonia, che si rivelò poi come assolutamente impari, per le caratteristiche del suolo e del clima, alle necessità dei meridionali. Il primo sterminio mondiale (1915-1918) fu un'ecatombe di uomini venuti dal Sud. Si giunse poi agli anni del dopoguerra, anni in cui il problema meridionale rimase assorbito dal problema contadino in generale e dalla situazione che caratterizzò il periodo 1918-1922, finchè con l'avvento del Fascismo la questione meridionale fu accantonata, perché considerata antinazionale e antiunitaria.
Fu solo dopo il 1945 che la "questione" tornò in primo piano e fu inserita in una visione globale, implicante l'intera pianificazione nazionale. Si ebbe così, nel 1950, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (fu De Gasperi ad insistere sul termine "Cassa", perché dava l'idea di un contatto immediato, diretto e finalizzato con il piccolo, medio o grande imprenditore nascente nel Sud). Dal 1965, nel Consiglio dei ministri, siede un ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, con lo scopo, fra l'altro, di coordinare il funzionamento della Cassa e di far applicare le disposizioni in favore delle regioni meridionali previste dalla legge dei liberali Cortese e Cottone (il 40 per cento di tutti gli investimenti devono essere destinati al Mezzogiorno). Un aspetto nuovo, soprattutto dal 1955, è stato quello dei grandiosi fenomeni di migrazione interna e verso l'Europa Comunitaria.
In quanto la "questione" non può essere risolta se non in rapporto con la situazione generale italiana, occorre infine notare che nel dopoguerra, e particolarmente nel periodo di maggior benessere conseguente alla politica di investimenti e al potenziamento della produzione industriale, nuovi squilibri si sono determinati tra Nord e Sud. Gli aiuti dello Stato e i tentativi di industrializzazione del Mezzogiorno, attuati in un momento di profonda trasformazione della società italiana, e "teleguidati" da politici e imprenditori del Nord, sono quasi del tutto naufragati. Se è vero che non può essere sottovalutato il fenomeno sociale di grande rilievo, cioé il processo di livellamento e di interscambio tra te classi del Nord - che ha i suoi precedenti in una lunga trasformazione storica, che, soprattutto, Pelle regioni più evolute, quali la Lombardia, il Piemonte, l'Emilia-Romagna, la Toscana, ha subìto in tempi recenti solo un'imponente accelerazione, mentre la società meridionale, più statica e caratterizzata da una fortissima differenziazione delle classi urbane e agricole, ha stentato ad adeguarsi a questi nuovi fenomeni e spesso ha troppo confidato nel valore determinante dell'aiuto statale - è altrettanto vero che ci troviamo di fronte a manifestazioni di recrudescenza del problema meridionale, specialmente là dove industrializzazione e politica di investimenti sono rimasti affidati a iniziative incontrollate. Da tutto ciò, sottoccupazione, disoccupazione giovanile, arretratezza, incapacità di venir fuori dal ritmo del tempo proprio dei meridionali, che non si accelera, non cresce a volontà. E da qui, l'assurdo della caduta d'interesse dei meridionalisti per i nuovi e più gravi problemi del Mezzogiorno, il cui conto sarà presentato, e forse duramente pagato, nel giro di pochi anni, e forse soltanto di pochi mesi.


Chiudiamo, con queste pagine, l'Atlante del Mezzogiorno che abbiamo proposto ai nostri lettori, regione per regione, nel corso di nove numeri della "Rassegna". Nostro compito era quello di presentare, nelle strutture fisiche (demografia, risorse, agricoltura, industria, settore terziario, scolarità, strutture sanitarie, movimenti finanziari), e nelle componenti storiche, letterarie e morali, le aree che tradizionalmente formano il Mezzogiorno storico le geografico. Sentiamo il dovere di ringraziare quanti hanno partecipato alla realizzazione di questo complesso lavoro: il professor Guglielmo Tagliacarne, che ci ha messo a disposizione i dati aggiornati; il dottor Sandro Gattei, per il settore dei grafici; i colleghi che hanno tracciato, sia pur sommariamente - come del resto l'impostazione del lavoro richiedeva le linee letterarie, storiche e monografiche; infine, i lettori, che con i loro suggerimenti ci hanno dato un aiuto spesso prezioso.

 


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