Il Bilancio dello Stato




Vittorio Barbati



Ogni anno le Camere dedicano vari mesi all'esame del bilancio di previsione dello Stato Il significato di questo esame, talvolta condotto in maniera minuziosa, è fin troppo evidente: il bilancio rispecchia, o dovrebbe rispecchiare, gli obiettivi di politica economica, e in senso più ampio di politica generale, che lo Stato, attraverso la manovra delle sue entrate e delle spese, si propone di conseguire.
L'esame del Parlamento è quindi, prima di tutto, un esame politico, attraverso il quale il Parlamento stesso verifica la rispondenza degli obiettivi contenuti nel bilancio agli impegni che il Governo - "elaboratore" del bilancio e responsabile, in sede politica, della sua esecuzione - ha assunto nel momento in cui ha ricevuto l'investitura parlamentare. Perciò l'approvazione la parte delle Camere del bilancio, che fa dello stesso una legge dello Stato, assume il significato di una conferma annuale degli indirizzi politici, governativi, unitamente al contenuto di un atto di controllo "preventivo" nei confronti dell'amministrazione statale.
Fin cui il ragionamento fila. E fin qui, almeno esteriormente, funziona il meccanismo. previsto dalla Costituzione, per l'impostazione e l'attuazione della politica finanziaria statale. Almeno esteriormente, si è detto, e per un motivo preciso. Perché bisogna chiedersi se il bilancio rispecchia realmente degli obiettivi di politica economica - degli obiettivi effettivamente perseguibili, tanto per intenderci! - o se non rappresenta altro che un'esposizione di buone intenzioni, destinate più o meno a rimanere sulla carta.
Purtroppo, la risposta a questo interrogativo non è positiva: il bilancio dello Stato, ormai, costituisce soltanto un enorme e complicato documento giuridicocontabile, privo del tutto, o quasi, di un vero significato economico: regolarmente le previsioni non si realizzano e i residui, attivi e soprattutto passivi, raggiungono cifre di migliaia di miliardi all'anno. In parole povere, questo significa che il meccanismo del bilancio non funziona. O che funziona malissimo. Ma perché.
Non è facile, soprattutto in un breve articolo, rispondere a questa domanda fondamentale, che investe problemi tecnici di enorme complessità e di difficilissima soluzione. E' possibile, tuttavia, dare una risposta nelle grandi linee. Prima di tutto, bisogna dire che il bilancio non è più adeguato - nella sua impostazione e nella sua struttura giuridico-contabile - alle esigenze moderne. In secondo luogo, si deve dire che l'organizzazione incaricata di prepararlo e di metterlo in atto non funziona come dovrebbe funzionare. Ma, procediamo con ordine ed esaminiamo questi argomenti separatamente.
Il nostro, com'è noto, è un bilancio di competenza, o "giurìdico". In altre parole, questo, significa che si tratta di un bilancio che rispecchia previsioni giuridiche di diritti e di impegni e non di un bilancio che rispecchia previsioni effettive di movimento di denaro: il bilancio prevede che, nel corso dell'anno finanziario (corrispondente, da oltre una dozzina di anni, all'anno solare), lo Stato acquisirà il diritto a riscuotere determinate entrate e potrà assumere, fino ad un certo limite, l'impegno di pagare determinate somme. Questo non significa nè che incasserà nè che pagherà. Quello che incasserà o pagherà può indicarlo, sia pure nei limiti consentiti dalle moderne tecniche di previsione, solo un bilancio di cassa. Ma il bilancio di cassa, nel nostro ordinamento, trova solo una specie di cittadinanza subordinata": viene elaborato solo come documento esplicativo, non come strumento operativo. Lo strumento operativo, con tutte le sue implicazioni, rimane il bilancio di competenza.
E' evidente quindi che, così com'è strutturato, il bilancio statale non rispecchia dei veri indirizzi di politica finanziaria. E quindi di politica economica. Ed è altrettanto evidente che, in tali condizioni, l'esame parlamentare perde molto del suo significato. In pratica, il Parlamento approva (generalmente l'approvazione è scontata, anche se le discussioni spesso si protraggono a lungo, talvolta oltre i limiti dell'anno solare che precede l'anno "di competenza" del bilancio, imponendo così il ricorso all'"esercizio provvisorio") delle impostazioni destinate, almeno in larga misura, a non conoscere una totale realizzazione. Vediamo di approfondire i motivi di questa "frattura" fra le buone intenzioni e la realtà. E cerchiamo anche di valutarne le conseguenze ed i possibili rimedi.
Non sarebbe giusto prendersela solo col bilancio di competenza, sostenendo che in esso va individuata la causa di tutti i mali della finanza pubblica. Una diagnosi di questo tipo sarebbe, a dir poco, monca e non certo illuminata: il bilancio di competenza, quando funziona, consente, senza dubbio meglio del bilancio di cassa, di controllare la correttezza dell'azione amministrativa. E questa è certamente una cosa molto importante. Il bilancio di competenza, però, non consente di fare previsioni valide in campo economico. E tanto meno di pianificare le attività finanziarie in funzione economica. Questo è il punto. Ed è un punto fondamentale. Perchè l'attività della finanza statale costituisce, in un modo o in un altro, direttamente o indirettamente, il fulcro, se non addirittura il motore, di tutte le attività economiche del paese. E quindi, proprio in questo quadro può anche costituire, quando non procede come dovrebbe, un elemento negativo di primaria importanza, un fattore estremamente pericoloso. E non occorre molto a dimostrarlo.
Quando, ad esempio, si dice - e questo avviene spesso - che con determinate spese pubbliche si possono mettere in moto determinati meccanismi (gli economisti parlano di effetti di "moltiplicazione" dell'occupazione e/o degli investimenti), si dimentica un fatto fondamentale: e cioè che, con le attuali strutture di bilancio e l'attuale organizzazione, nessuno è in grado di prevedere se l'erogazione di queste spese avverrà, se avverrà integralmente e se avverrà al momento giusto e nel modo giusto. Al limite, stando le cose come stanno, può verificarsi il caso che delle spese previste per mettere in moto, in una determinata fase congiunturale, dei meccanismi produttivi provochino, entrando in circuito in un momento "sbagliato", invece di effetti benefici, effetti dannosi: degli effetti di "distorsione", per esempio; o delle pericolose tensioni inflazionistiche.
Come si è detto, questi inconvenienti - e parecchi altri ai quali non si può nemmeno accennare per ovvie esigenze di spazio - non vanno imputati "sic et simpliciter" al bilancio di competenza, ma vanno piuttosto attribuiti a tutto il sistema in cui tale bilancio si inserisce. Può essere perciò opportuno lumeggiare sia pure molto brevemente i criteri ispiratori e le principali caratteristiche strutturali-organizzative di tale sistema.
Com'è noto, alla finanza pubblica possono essere attribuite molte finalità, più o meno ampie ed importanti. In genere, essa viene definita "finanza neutrale", quando le vengono attribuiti solo fini di mantenimento dell'apparato statale, e "finanza funzionale", quando i suoi scopi diventano più incisivi ed estesi, assumendo i caratteri di fini di propulsione e di indirizzo dello sviluppo socio-economico del paese.
E' ovvio che, nei due casi, sia le strutture che i principi ed i metodi operativi devono essere differenti. Una "finanza neutrale" richiede un'amministrazione pubblica limitata all'essenziale ed adatta solo a gestire quei servizi pubblici indivisibili che, sia per motivi tecnici che per motivi sociali, possono essere affidati soltanto allo Stato. Una "finanza funzionale", invece, impone un'enorme massa di interventi nelle direzioni più diverse e, pertanto, esige un'organizzazione molto più artico lata e strutturata in funzione dell'adeguatezza e della tempestività di tali interventi.
Non basta! La "finanza neutrale" è legata ad un principio giuridico che potremmo definire di "responsabilità patrimoniale". L'amministrazione dell'apparato statale si traduce, in base a tale principio, nella gestione di un patrimonio pubblico (tale è infatti quello dello Stato), che deve essere assolutamente "conservato". Questo fine di "conservazione" esige l'adozione di tutta una serie di garanzie giuridiche che trovano nel bilancio di competenza la loro massima espressione.
Al polo opposto si colloca la "finanza funzionale", nell'ambito della quale i principi predominanti divengono quelli della "tempestività", dell'"adeguatezza" le dell'"efficienza", e quindi del "coordinamento" e della "flessibilità". Sul piano giuridico, questi principi si traducono, o dovrebbero tradursi, in un nuovo tipo di responsabilità "funzionale", da attribuire all'operatore pubblico (con tale dizione può essere indicato sia l'ente che chi lo rappresenta), in base alla quale questo operatore dovrebbe rispondere sia della "correttezza amministrativa" che dell'"efficienza efficacia" della sua azione.
Il guaio vero è che - sebbene nel nostro paese si parli da decenni di programmazione e quindi di impostazioni che possono prescindere dalla "finanza funzionale" - non si è mai fatto nulla di sostanziale per trasformare le impostazioni giuridiche originarie, nate in un contesto storico e socio-economico molto diverso da quello di oggi e strettamente aderenti ai criteri della "finanza neutrale", in impostazioni più aderenti alle esigenze odierne: l'amministrazione statale può essere chiamata a rispondere - ed è giusto! - delle irregolarità sia formali che sostanziali della sua azione, ma, in pratica, non può essere chiamata a rispondere degli incalcolabili danni economici, e non solo economici, che provoca al paese tutto con i suoi ritardi, con le sue contraddizioni e con le sue pastoie.
Non sappiamo fino a che punto questi ostacoli ad un'azione più incisiva della finanza pubblica, che pure sono presenti nel nostro ordinamento da decenni, sono stati considerati capaci di frenare, o addirittura di sovvertire, l'attività finanziaria del nostro Stato. Sappiamo soltanto che i provvedimenti adottati per superarli sono stati ben poca cosa, e, in pratica, non hanno inciso nè sui princìpi nè sui metodi della nostra finanza statale.
Nel 1964, venne adottata una legge, con la quale, mantenendo inalterati i criteri ispiratoti del bilancio di competenza, venivano introdotte nuove classificazioni delle entrate e delle spese statali. Queste nuove classificazioni, basate sulla ripartizione delle entrate in tributarie, extratributarie e per ascensione di prestiti, e sulla divisione delle spese in correnti (o di amministrazione e mantenimento) e in conto capitale (o di investimento), erano senza dubbio più idonee di quelle precedenti ad evidenziare le impostazioni e le finalità della finanza statale. E soprattutto per
quanto riguardava le spese - viste sotto il triplice profilo amministrativo, economico e funzionale - avrebbero anche potuto consentire, se il meccanismo avesse reso possibile il rispetto di una progressione organica nelle erogazioni, notevoli approfondimenti relativi sia al funzionamento dell'amministrazione statale che agli effetti della sua azione.
Obiettivamente, però, l'utilità di quella legge - chiamata legge Curti dal nome del deputato proponente (e con la quale, giova notarlo, l'anno finanziario fu fatto coincidere con l'anno solare) - non poteva andare oltre. Sotto il profilo "conoscitivo", il bilancio risultava indubbiamente migliorato; sotto il profilo "operativo", però, non si faceva nessun sostanziale passo avanti. La legge Curti era una legge di premessa, che "predisponeva" il bilancio ad accogliere nuove impostazioni, più aderenti alle esigenze della programmazione economica, ma non poteva offrire di più. Era uno strumento di transizione, da integrare prima e da sostituire poi con altri strumenti più incisivi. Essa introduceva un vero e proprio elemento di rottura - spezzando l'equilibrio fra i fini "neutralistici" della legislazione finanziaria ed i fini del bilancio, che almeno sotto il profilo "esteriore" divenivano "funzionali" - ma non forniva le basi necessarie alla formazione di un nuovo equilibrio.
La logica avrebbe dovuto consigliare di procedere sulla strada intrapresa. Lo squilibrio nei fini, inevitabilmente destinato a tradursi in uno squilibrio nei metodi e nell'organizzazione, poteva essere accettabile in una fase transitoria, in un periodo di "raccolta" di esperienze. Ma non avrebbe dovuto prolungarsi per troppo tempo. Invece è avvenuto proprio questo. Le altre leggi, che avrebbero dovuto consolidare il nuovo equilibrio "introdotto" dalla legge Curti, non sono mai venute. In compenso, qualche anno più tardi, si pensò di sanare tutto adottando "per legge" la programmazione economica. O meglio trasformando in legge - sarebbe interessante conoscere il parete di qualche giurista sulla natura di una legge del genere: formale, sostanziale, di autorizzazione, ecc. - il primo programma quinquennale. Che naturalmente, nonostante questa "sanzione giuridica", rimase sulla carta perché non esistevano gli strumenti tecnici necessari per realizzarlo. A cominciare da un bilancio veramente "funzionale", frutto di tecniche veramente moderne ed idoneo a rappresentare un vero strumento di propulsione.
Le cose da allora non sono cambiate. I princìpi del bilancio sono sempre gli stessi e le strutture, giuridiche ed operative, per la gestione del bilancio sono anch'esse le stesse. Tuttavia, non è proprio ,esatto dire che le cose non sono cambiate: purtroppo sono peggiorate. Ed anche parecchio. Si è aggravata la situazione economica del paese, si è aggravato l'indebitamento dello Stato (e degli altri enti pubblici,), si è aggravata la "rigidità" della spesa statale (e degli altri enti pubblici) e si è aggravata l'impotenza dello Stato a fronteggiare una crisi che è ormai divenuta cronica.
A questo punto, si potrebbe anche concludere che la cosa migliore sia tirare i remi in barca e sperare nello Stellone. O in qualche altra cosa. Non siamo stati capaci di rimettere ordine nel periodo delle vacche grasse e ora è certo più difficile farlo in un periodo di vacche magre. Ma non si può essere pessimisti fino a questo punto. Dei rimedi esistono. Però richiedono molto coraggio. Il punto fondamentale è questo.
Prima di tutto il problema va affrontato evitando di giocherellare con i soliti palliativi che lasciano il tempo che trovano: ossia con le solite leggi che prescrivono cose inattuabili non, si badi bene, per carenza di mezzi finanziari (non sempre tali mezzi mancano), ma per la totale mancanza dell'organizzazione necessaria. E' necessario persuadersi di una cosa elementare che, stranamente, è stata sempre sottovalutata: e cioè che quando si vuole fare qualche cosa è indispensabile, prima di tutto, studiate e predisporre le strutture più adatte a consentirne la realizzazione. E' inutile parlare di piani finanziari pluriennali a scorrimento, di aggancio dei piani finanziari ai programmi economici, di coordinamento fra il bilancio statale e i bilanci regionali, di abbinamenti cassa-competenza, eccetera eccetera, se non si gettano prima le premesse organizzative, ed umane, senza le quali l'introduzione di questi nuovi meccanismi è condannata in partenza al fallimento.
In un campo complesso come quello della finanza statale (o in senso più lato della finanza pubblica), nessuna innovazione sul tipo di quelle alle quali si è accennato può dare risultati positivi se non è basata su tecniche operative e di calcolo adeguate, su evoluti procedimenti di informazione e di analisi e, soprattutto, sulla disponibilità di personale adeguatamente preparato (che in qualche modo bisogna formare, dato che la scuola, a tutti i livelli, non riesce più ad assolvere i suoi compiti).
D'altra parte, il problema della finanza statale - e in senso più ampio di tutta la finanza pubblica, strettamente legata a quella statale, dalla quale spesso riceve l'"ossigeno" che le occorre per sopravvivere - s'inquadra in tutto il problema della riorganizzazione dell'apparato pubblico. Quando si parla di "rigidità" della spesa, di "incomprimibilità" della sua parte corrente (ossia di quella destinata al mantenimento dell'apparato), eccetera, si pone in evidenza il fatto che l'apparato pubblico assorbe, semplicemente per mantenersi in vita, una fetta eccessiva delle risorse del paese. E' a questo che occorre porre rimedio. Non si può farlo in breve tempo. Ci vogliono gli anni e ce ne vogliono anche parecchi. Ma, soprattutto, ci vuole coraggio.

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