§ Leggendo il bilancio 1978

Il baratro della spesa




Alfredo Recanatesi



Una valutazione del Bilancio per il 1978 meno superficiale di quella consentita dalle poche cifre rese pubbliche al momento dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri e quale, invece, è ora resa possibile dalla pubblicazione del documento induce a considerazioni assai sconfortanti. Da esso, e nella piccola ma assai sintomatica appendice della vicenda delle pensioni che ne è già seguita, emerge soprattutto l'incapacità del Paese di imboccare la via del risanamento.
Per dimostrare questo assunto, sarebbe sufficiente una semplice constatazione, su buona parte della quale, del resto, lo stesso governo sembra concordare, cioè che la "Lettera d'intenti" inviata al Fondo Monetario nel marzo 1977 è già stata ed ancor più sarà nel 1978 totalmente disattesa. E' stato disatteso non solo un impegno formale assunto verso la comunità internazionale, ma soprattutto la speranza e l'impegno con cui una parte non piccola di italiani avevano accettato l'ondata di sacrifici piovuta sulla loro testa nel corso dell'anno passato. Di questa ondata rimangono il forte miglioramento della bilancia dei pagamenti tanto apprezzato dal Fmi, un contenimento dell'inflazione, ma anche una crisi accentuata della produzione, degli investimenti e dell'occupazione.
Questo è, o dovrebbe essere, un momento di passaggio verso una ripresa della produzione, del reddito, degli investimenti, dell'occupazione che avrebbe dovuto essere consentita dal miglioramento della situazione della finanza pubblica intesa soprattutto come un contenimento della sua ipoteca sulle risorse disponibili affinché ne rimanessero in maggiore misura per fini produttivi. Questo miglioramento non solo non c'è, ma sembra quasi che è un bene che non ci sia. Prospettando una immagine del nostro sistema economico ancor più degradata di quella, certamente non benevola, che pure avevamo presente, il bilancio parla di un deficit del settore pubblico allargato per il 1978 di 19.000 miliardi, sostenendo che esso è compatibile con: l'ulteriore contenimento dell'inflazione, un surplus dei conti con l'estero di 2.000 miliardi di lire (destinato a rimborsare una parte dei debiti in scadenza), e con un aumento del reddito del due per cento. Il "modello" accettato per il prossimo anno, dunque, è quello che richiede almeno 19.000 miliardi di deficit pubblico per conseguite un aumento del reddito di appena il 2%, il quale è il minimo necessario per alimentare la speranza che la disoccupazione non continui a crescere.
Si deve aggiungere che questo già disperato modello è ancora un obiettivo da raggiungere. Per contenere il disavanzo entro i 19.000 miliardi, infatti, occorre ancora trovare nel bilancio pubblico allargato qualcosa come 5-6 mila miliardi poiché, fotografato ad oggi, quel disavanzo si prospetta dell'ordine dei 24-25 mila miliardi.
Questi dati dovrebbero tagliare corto su ogni disquisizione circa l'opportunità di sostenere il tono congiunturale con la politica di bilancio. Noti solo questo sostegno viene già profuso a generose mani, ma pare abbia già ottenuto anche la benedizione dello stesso Fondo Monetario. Il limite di 19.000 miliardi di disavanzo allargato, infatti, sembra sia stato già concordato con il Fmi (nella "Lettera di intenti" questo disavanzo era fissato in un massimo di 16.500 miliardi) proprio in considerazione del fatto che esso è necessario per evitare che la dinamica del reddito cada sotto il 2%. Se è vero che il Fmi ha accettato un ragionamento di questo genere, che di fatto mette una pietra sopra ogni possibilità di effettivo risanamento economico, dopo che nel marzo scorso aveva imposto la tesi esattamente contraria del contenimento della invadenza pubblica come presupposto di ogni concreto e durevole risanamento, dovremmo cancellare anche la sua sigla dall'ormai risicato elenco di chi può ancora porsi come credibile punto di riferimento.
Ci sembra superfluo addentrarci più analiticamente nel dedalo di cifre esposte nel documento governativo. Le poche che abbiamo richiamato indicano chiaramente che l'assistenzialismo esplicato dal disavanzo pubblico è ormai un dato paralizzante della nostra struttura economica; paralizzante e, ad un tempo, irreversibile, dal momento che il modello che abbiamo richiamato indica che al di fuori di esso il Paese non può più contare su alcuna energia. Se è vero quel modello, se ne deve trarre la conclusione che tutto il Paese è ormai intorpidito dalla droga assistenziale e, incapace di reagire, finisce per affidare sempre più ad essa la soluzione dei suoi problemi.
In questa chiave, anche il contenimento dell'inflazione appare ancor più precario di quanto anche noi lo abbiamo sempre considerato. Esso, infatti, non potrà mai essere assunto come un dato acquisito fino a quando la spesa pubblica - intesa ora in senso reale, cioè come volume di risorse impiegato senza una contropartita in termini di produzione di reddito - non venga effettivamente bloccata, o fino a quando, con scelta consapevole e coerente, il Paese non abbandoni ogni ambizione di benessere e di perequazione sociale, ad incominciare da quella più immediata della disponibilità per tutti di un dignitoso posto di lavoro.
Quest'anno l'inflazione è stata contenuta, è vero, ma non perché la spesa pubblica sia stata contenuta (il deficit allargato sta andando verso i 18.000 miliardi contro i 14.000 della lettera d'intenzioni) ma soprattutto per l'irripetibile addensamento degli introiti fiscali.

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