LIBRI DI ECONOMIA




Guglielmo Tagliacarne



ANTONIO MARTINO - Che cos'è l'inflazione, EDIPEM, Novara 1977, pagg. 121, lire 2.500.

Con una interessante presentazione di Cesare Zappulli, la Edipem di Novara ha intrapreso la pubblicazione di una collana di opere brevi, con il proposito di avvicinare i lettori ai problemi dell'economia in modo il più possibile facile e chiaro. Si tratta quindi di opere divulgative di cui si sente un vivo bisogno. Il primo volumetto di questa collana è stato affidato ad Antonio Martino, professore di ruolo alla cattedra di economia politica nell'Università di Napoli, e affronta il problema dell'inflazione.
Sia chiaro che l'inflazione ha a che fare con i prezzi, non con la moneta. Essa può definirsi come un aumento prolungato del livello dei prezzi, ovvero, ma è lo stesso, una diminuzione prolungata del potere d'acquisto della moneta. Si intende che inflazione non significa prezzi alti, ma prezzi in aumento, siano essi alti o bassi. Non si ha inflazione se l'aumento ha carattere temporaneo o "una tantum".
L'A. osserva che, in fondo, tutti concorriamo all'inflazione. Noi vogliamo che il nostro lavoro sia remunerato bene e in aumento, ma non vogliamo pagare prezzi alti in misura crescente per i prodotti altrui.
Poichè l'inflazione, come si è detto, ha a che fare con i prezzi, è ovvio che per misurare l'inflazione bisogna misurare le variazioni di prezzi. Si affaccia così il problema del calcolo degli indici dei prezzi, problema più arduo di quanto si creda, perché i prodotti sul mercato sono molti e per ognuno di essi vi sono vari prezzi.
L'inflazione può derivare da variazioni autonome o da variazioni indotte. Se un aumento della sposa globale del 10 per cento, produce simultaneamente un aumento del reddito del 10 per cento, il rapporto rimane invariato, il livello dei prezzi non muterebbe e non vi sarebbe inflazione. Perché si abbia inflazione quindi è necessario che una variazione di uno dei termini non si traduca simultaneamente in una variazione uguale dell'altro.
Cominciando ad esaminare l'inflazione da domanda, quella determinata da un aumento autonomo della spesa globale, si devono ricordare le varie teorie che spiegano la determinazione della spesa globale e delle sue variazioni. Ciò conduce l'A. ad esaminare uno dei capitoli più interessanti e più noti dell'economia moderna, che ha attirato l'attenzione di un gran numero di economisti e ha suscitato vivaci polemiche, facendo perno specialmente sull'opera di Keynes.
Il Keynes distingue due categorie di spese globali: quelle speso che dipendono dal reddito e che, non potendo variare se non varia il reddito, non svolgono un ruolo autonomo nella determinazione della domanda globale (cioè del reddito monetario); e quelle spese che, non dipendendo dal reddito, possono variare autonomamente e determinare quindi variazioni del totale, cioè della spesa globale, del reddito monetario.
Si distinguono le spese per consumi da quelle per investimenti. Un'altra spiegazione dell'inflazione è quella dei costi (spinta dei costi). In questo caso l'inflazione non avrebbe origine dalla domanda, ma dall'offerta. E' questa una teoria oggi motto popolare e più diffusa rispetto a quella della domanda, accennata più sopra.
Se si guarda bene, si constata un circolo vizioso dell'inflazione che si attua attraverso un dato "sistema". Tale sistema, che è quello da cui nasce e si sviluppa l'inflazione, funziona così: i sindacati chiedono al settore pubblico aumenti salariali e "miglioramenti" contrattuali che finiscono col fare aumentare la spesa pubblica. Il Parlamento, a sua volta, chiede al governo una maggiore sposa per i servizi sociali (le così dette "riforme"). Il governo cede alle richieste di entrambi e la spesa pubblica cresce fino al punto in cui non può più essere finanziata con l'aumento delle imposte esplicite. Il deficit del bilancio del settore pubblico cresce sino a raggiungere livelli tali che non consentono il finanziamento con l'indebitamento ai tassi di interesse del mercato. A questo punto il ricorso alla creazione della moneta per finanziare il deficit pubblico diventa inevitabile. Nella misura in cui la creazione di moneta risulta eccessiva rispetto alle possibilità dell'economia, il risultato è l'inflazione. Questa rappresenta una imposta non esplicita; un'imposta che è la più iniqua ed arbitraria che esista. E' un'imposta non approvata dalla legge.
L'inflazione in Italia si presenta quindi come un fenomeno monetario. I fattori politici cui è possibile imputare la crescita eccessiva e disordinata della quantità di moneta sono, secondo l'opinione dell'A., i seguenti: 1) il fatto che la creazione della moneta è usata come strumento di finanziamento del deficit del bilancio; 2) il fatto che, date le dimensioni del settore pubblico, il salarlo nominale è una variabile "esogena", determinata da considerazioni politiche, cioè dalle pressioni sindacali sul settore pubblico; 3) il fatto che, dato che la nostra è una democrazia parlamentare, il governo deve cedere alle richiesta di maggiori spese provenienti dal Parlamento. Quindi, date questa caratteristiche del sistema, il tasso di sviluppo della quantità di moneta dipende dal deficit pubblico.
Quanto male abbia funzionato questa macchina politico-burocratica lo si desume dalle conseguenze, cioè dal grado di inflazione che è andato rapidamente accordandosi in modo pazzo, con le conseguenze sociali, morali, politiche che ne derivano.
L'A. conclude confessando che non capisce perché la maggioranza della gente, in presenza di aumenti eccessivi dei salari, ne attribuisco la colpa a chi li ottiene, anzichè a chi li concede. Sarà forse, osserva l'A., perché i primi fanno il loro interesse ed i secondi il nostro danno. Eppure, se si guarda al problema degli aumenti salariali eccessivi dal lato di chi li concede anzichè da quello di chi li ottiene, si perviene alla vera causa del fenomeno.
L'A. si domanda: perché vengono concessi aumenti salariali eccessivi? La ragione è semplice: nella maggior parte dei casi si tratta di dirigenti di aziende pubbliche che si comperano "la pace sociale" con i soldi dei contribuenti, non con soldi loro.
La pubblicazione è corredata da una documentazione statistica sui prezzi e sulla quantità della circolazione monetaria.


LUCIO SICCA - L'industria alimentare In Italia, Edizione IL MULINO di Bologna pagg. 118. lire 3.000.

Lucio Sicca, titolare della cattedra di tecnica industriale e commerciale all'Università di Napoli, affronta con questa pubblicazione l'arduo problema dei costi e dei prezzi dei prodotti alimentari in Italia, con particolare riguardo alla fase della produzione e a quella della distribuzione al consumo, nell'intento di studiare le possibilità di ridurre il costo dell'alimentazione.
La spesa alimentare degli italiani costituisce ancora una elevata percentuale, circa il 37 per conto, della spesa per consumi finali, per cui appare giustificata la richiesta di interventi volti a contenere i costi dell'alimentazione. Si sa che la spesa per questo settore è la risultante della somma dei costi sostenuti per la produzione, l'importazione, la trasformazione industriale, la commercializzazione dei prodotti freschi e lavorati, oltre che dei profitti degli operatori che svolgono le citate funzioni.
Nel 1974, ricorda l'A., ultimo anno per il quale si dispone di dati sufficienti, gli italiani hanno speso in totale per consumi alimentari, 24.500 miliardi di lire, costituiti per 11.500 miliardi dai ricavi degli agricoltori e degli importatori di prodotti agricoli e zootecnici, per 8.600 Miliardi di lire dalla commercializzazione dei prodotti freschi o trasformati e infine per 4.400 miliardi come ricavi delle attività di trasformazione industriale (al netto degli inputs agricoli). Quindi le due voci più notevoli sono i ricavi degli agricoltori (a importatori) e i costi commerciali. E' pertanto in queste due voci, secondo l'A., che si trova lo spazio per intervenire. D'altra parte le carenti condizioni strutturali della nostra agricoltura, l'esistenza di una politica agricola comunitaria che per l'Italia ha più aspetti negativi che positivi, le insufficienze del nostro apparato commerciale, sono fattori che lasciano facilmente intuire quanto consistenti siano le economie di cui i consumatori potrebbero beneficiare attraverso l'aumento della produttività in agricoltura, la revisione di alcune norme comunitarie particolarmente gravose per il nostro paese, e infine la razionalizzazione delle strutture commerciali.
L'A. si sofferma sulla parte riguardante i costi industriali; che, come si è visto, sommano a 4.400 miliardi. In tale somma convergono i costi delle materie non agricole impiegate nel processo di lavorazione, i costi del lavoro, l'imposizione indiretta e il profitto lordo delle aziende trasformatrici. Detto profitto viene stimato in circa 580 miliardi di lire e deve coprire gli ammortamenti, gli oneri finanziari netti e le Imposte dirette. L'ipotesi di togliere la quota dei profitto lordo dell'industria, oltre ad essere puramente teorica, non servirebbe a ridurre il costo dell'alimentazione in misura apprezzabile. Una diminuzione del 10 per cento del profitto lordo determinerebbe infatti una diminuzione dello 0,24 per cento della spesa alimentare, mentre il completo annullamento dello stesso, ancorchè privo di senso, inciderebbe per il solo 2,4 per cento.
L'A., che evidentemente prende - obiettivamente - la difesa della posizione dell'industria, osserva che è assurdo attribuire la colpa di ingiustificati aumenti dei prezzi alla fase di trasformazione industriale dei prodotti. Al riguardo si possono, fra l'altro, considerare i tassi di aumento dei prezzi dei settore alimentare nel periodo 1960-74 per gruppi di prodotti:
prodotti freschi: + 144,0 per cento
prodotti trasformati : + 109,8 per cento,
di cui:
- agricoli-artigianali: + 146,9 per cento
- industriali: + 94,1 per cento
Totale prodotti alimentari: + 125,1 per cento
Inoltre l'A. osserva che dal 1966 al 1975 (non è stato possibile risalire più indietro nel tempo) i prezzi al consumo dei prodotti alimentari sono cresciuti meno degli altri beni di consumo. Nell'arco di tempo considerato i primi sono aumentati dell'88 per cento e i secondi del 99 per cento. Nell'ambito dei prodotti alimentari, i prodotti freschi sono saliti di prezzo di oltre il 100 per cento, mentre i prezzi degli altri prodotti lavorati sono cresciuti del 75 per cento.
Un'altra serie di indici del prezzi è di particolare interesse: l'indice dei prezzi dei prodotti venduti dagli agricoltori è aumentato del 113,1 per cento tra il 1966 e il 1975; 1'indice dei prezzi di prodotti alimentari importati è aumentato nello stesso periodo dei 138,9 per cento; infine l'indice dei prezzi all'ingrosso dei prodotti alimentari industriali è cresciuto del 73,8 per cento.
Una delle più importanti aree di possibile intervento per il contenimento del costo dell'alimentazione è, secondo l'A., quella della distribuzione al consumo. Si stima che sui 24.500 miliardi di lire per i consumi alimentari nel 1974, i margini commerciali e gli oneri di trasporto abbiano pesato per circa 8.640 miliardi di lire; di questi, 4.810 miliardi riguardavano i prodotti agricoli allo stato fresco, 1.220 miliardi di prodotti lavorati in natura e 2.610 i consumi di prodotti lavorati industriali.
A proposito delle strutture commerciali, ritenute dall'A. arretrate e talvolta inficiate da servizi superflui di natura parassitaria, vengono riportate le cifre di confronto del costo di distribuzione in Italia rispetto alla Francia e al Regno Unito per alcuni prodotti alimentari di largo consumo.
Il costo di distribuzione, in percentuale sul totale della spesa alimentare, nel 1970 è risultato del 33,8 per cento in Italia, del 29,3 per cento in Francia e del 27,4 per cento nel Regno Unito (Fonte ISCE, Tavole intersettoriali).
L'incidenza del costo di distribuzione sul consumi alimentari è andata rapidamente crescendo negli ultimi anni, essendo passata dal 25,1 per cento nel 1959 al 32,3 per cento nel 1969, al 35,0 per cento nel 1972.
Infine l'A. affronta il problema della bilancia agricolo-alimentare italiane, ricordando che nel 1976 essa si è chiusa con un disavanzo di 3.244 miliardi di lire, pari al 60 per cento del disavanzo totale, che è ammontato a 5.402 miliardi di lire. Il 76 per cento di detta cifra è costituito da prodotti freschi, mentre solo il 24 per cento si riferisce a prodotti lavorati.
Per contro, dal lato delle esportazioni di prodotti alimentari, si nota che su un valore complessivo di 2.221 miliardi di lire, i prodotti freschi contano per il 43 per cento, mentre i prodotti lavorati assorbono l'altro 57 per cento. Si constata pertanto all'esportazione una posizione completamente rovesciata rispetto all'importazione.
Chiudiamo questa rapida segnalazione dell'ottimo lavoro di Lucio Sicca, riportando i dati della bilancia commerciale per i prodotti alimentari industriali nel 1976 (in miliardi di lire).


Purtroppo il disavanzo negli ultimi anni è in continuo aumento. Anche per questa ragione si rende opportuno lo studio del Sicca, che può indicare scelte e strategie di politica atte a contenere il costo che dobbiamo pagare all'estero per la nostra alimentazione.


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