Il dialetto grecanico
si parla ancora in sette comuni: capitale di quest'isola ellenofona è
Calimera. La letteratura che vi è nata è un'originale fonte
di grecità, che ha attraversato incontaminata i secoli e le generazioni
alloglotte, conservandosi solo in due aree, la nostra, e quella della
Calabria jonica.
Il nucleo ellenofono
del Salento, scriveva il compianto professor Giannino Aprile, un tempo
assai più vasto, oggi èridotto ai comuni di Calimera,
Martano, Castrignano dei Greci, Corigliano d'Otranto, Martignano, Sternatia
e Zollino. Il greco non si parla più a Melpignano, e si parla
ormai pochissimo e soltanto dagli anziani a Soleto. Eppure, in quest'ultimo
comune - annotava Aprile - come affermava nel 1807 il canonico Pacelli,
autore di un inedito "Atlante Salentino", allora si parlava
il dialetto più e meglio che in altri comuni, dove si è
invece meglio conservato.
La terra di Grecia, dunque, ha perduto due corone, due territori, (e
due "letterature", vale a dire due complessi mondi di usi,
costumi, tradizioni orali: che altrove letterati locali hanno amorosamente
raccolto), che non sono da, considerare gli ultimi, né i primi.
Certamente, l'area grecanica del Salento fu assai più vasta e
articolata, almeno fino all'unità d'Italia: il patrimonio culturale
che èandato disperso (qui, ma anche nell'area grecanica della
Calabria, e in quelle albanesi della stessa Calabria e del Molise) è
stato notevole, tant'è che quel che è stato salvato -
di per sé - è sufficiente a dimostrare che il dialetto
dell'isola idiomatica greca del Salento merita di essere conosciuto
e studiato non solo linguisticamente, ma anche come fenomeno letterario
originale, a se stante, per la sua inconfondibile, personalissima matrice
poetica. Scriveva uno dei massimi studiosi di glottologia italiana,
il salentino Oronzo Parlangeli, ammirando la pregevole fattura di alcuni
canti e traúdia greganici: "Quasi quasi ( ... ) non mi importa
più di sapere se i nostri greci sono d'origine dorica o bizantina,
se son venuti prima dei romani o dopo dei goti; mi basta sapere che
essi sono gli eredi, i continuatori, i costruttori dell'ellenismo di
ieri, di oggi, di domani".
Se ne sono interessati italiani e stranieri: Comparetti, Morosi., Pellegrini,
Battisti, i locali Palumbo e Lefons, poi Parlangeli e Stomeo, Gerhard
Rohlfs, docenti delle università greche (di Jannina, Salonicco,
Atene): risultò così che i dialetti greci del Salento
sono "più che probabili sopravvivenze estreme, e ancor limpide,
di quella cristallina copiosa fonte di grecità che, attraverso
i secoli, si intorbidò profondamente nella stessa madre patria:
vera esigua Aretusa idiomatica, tralugatasi e conservatasi nel Mezzogiorno
italico, dopo aver traversato incontaminata la marca delle generazioni
alloglotte e dei secoli".
Il cuore della Grecìa è Calimera, dalla splendida etimologia
greca. Vi si scende dalla Serra di Martignano. o dalle strade in pianura
di Lecce e Martano: circondata da campi verdi, (viti, olivi e tabacco
a perdita d'occhio), case prevalentemente basse, fra giardini, intorno
all'alto campanile e alla chiesa del Seicento.
Venuta dall'Oriente nei tempi torbidi e foschi del medioevo, scriveva
Vito D. Palumbo, rimasta essenzialmente greca fino a poco tempo la;
ora, pare che si incammini a gran passi verso la civiltà italica,
verso la sua nuova patria. Qui - rilevò nei suoi bozzetti di
viaggio nella "Provincia di Lecce" Cosimo De Giorgi - i ricordi
di grecismo fa d'uopo raccoglierli più dalla bocca del popolo
che sui monumenti, essendo stati questi o trasformati o distrutti. Questo
pietoso lavoro di collezione di canti di inni e di leggende in dialetto
greco si va oggi facendo con amore e con molta perizia.
De Giorgi si riferiva al suo amico Vito D. Palumbo, il quale, reduce
dalla Grecia, aveva incominciato a studiare la relazione tra l'ellenismo
salentino e quella della regione trans-jonica. Sarebbe poi toccato ai
Lefons, agli Aprile e agli ellenisti minori di Calimera, (Colaci, Castrignanò,
Mascello, Kokkoluto) e a studiosi locali (dal Gabrieli al De Sanctis),
arricchire testi e critica, memorie, leggende, fino a dare -quasi intatto
- il quadro di questa cultura e di questa letteratura che locali soltanto
non sono, ma di interesse ben Più vasto. E Giannino Aprile, infine,
avrebbe dato - postumo -quel "Canzoniere" che è, oggi,
la fonte più completa per chi voglia entrare in questo mondo
poetico discreto e appartato, eppure sublime, ricco di sentimenti incontaminati.
Traùdia, moroloja, inni, canti di prefiche, scioglilingua, ninne-nanne,
bium-bo, detti e proverbi, indovinelli, lamenti, poemetti, canti d'amore:
tutto un amplissimo campionario delle espressioni poetiche, dei canti
d'amore e di morte, della saggezza popolare, dei "dispetti",
delle narrazioni, delle parole umili di ogni giorno, dei pensieri distillati
attraverso una eccellente perfezione tecnica, ci prospettano un itinerario
unico e ricco, di un fascino originale.
Colta e raffinata è "Orrio io ti fengo", poesia d'anonimo,
che proponiamo nella traduzione del prof. Aprile.
ÓRRIO
IO TI FENGO
Órrio
tto fengo pu sù ste kanòni
òrrio tto fengon io pu s'oste panu
ésprize tikiané, sekundu o xiòni,
jò llustro pu èmbie o fengo 'pu cipànu.
Ma en io tosso
ciso mea spiandoro
cino pu férefse i kkardian emena
io t'ammái-ssu, a mmádia, o musos olo
pu kante o fengo, kanonònta esena!
ERA BELLA LA LUNA
Bella era la
luna che tu guardavi
bella era la luna che ti sovrastava
e tutto imbiancava come la neve
per la luce che emanava di lassù.
Ma non fu tanto
quella grande luce
ciò che ferì il mio cuore
furon gli occhi tuoi ed il tuo viso
che incantavano la luna che ti guardava!
E questi altri versi, ripresi dallo stesso "Canzoniere" apriliano,
a metà strada tra il tono popolaresco e il "dispetto",
di evidente ispirazione quattrocentesca:
ÍMONE
ENA JARAI
Ímone
ena jarai pellegrino
kaccia ekanna es to skotinò
mila en éfinna 's kané jardino
n'arto na su vuddhiso to llemò.
Cinquina sìmmeri
ce avri karrino
esù m' éftase na iettò ftexò
ce arte ti m'efe ce me spázzefse
eglise i pporta ce m'èguale pu mbrò.
ERO UN FALCO
Ero un falco
che errava
andando a caccia di notte
e nei giardini non lasciava mele
per venirti a chiudere la bocca.
Tu m'hai ridotto
in povertà
ed or che m'hai sfruttato e mal ridotto
mi chiudi la porta, togliendomi dai piedi.
Stupendi, infine,
i canti delle prefiche: dolcissimi i traùdia dell'amore, ancora
più dolci e abbandonati quelli della morte, del lutto che colpisce
gli affetti più vicini e più sacri, ma anche la comunità,
tutti gli uomini votati a un destino in fondo comune. Greco è
il linguaggio, e dalla tragedia greca viene il dialogo breve tra il
defunto e i viventi ("Aspettami mamma, aspettami, / aspettami fino
alle sette..."), come un ultimo saluto alla vita cessata, alla
luce del sole spenta, all'entrata in un mondo d'una sola stagione, la
stagione fredda e interminabile dell'al di là, sotto la terra
nera:
Klàfsete,
klàfsete, klèome
'utti mana skunzulata
ti torì to pedai tti
na pai 'ci kau s ti pplaka.
E' ttu pònise
u Tanatu
e' ttu pònise e kardìa
na tronkefsi utton argulo
ttu simà 's tin ghetonìa!
-Mine me, mana
mu, mine me
mine me ros 's tes eftá
ce a ttorì ti èn érkome
mi nfaccettu pleo mmakà...
-Mi me mini pleo,
mmana mu,
kaloceri nde scimona...
Piangete, piangete, piangiamo
questa madre sconsolata
che vede il suo bambino
scendere sotto la tomba.
E non dolse alla
morte
non le dolse il cuore
troncare questa pianta
da questo vicinato!
-Aspettami, mamma,
aspettami,
aspettami fino alle sette
e se vedi che non torno
non affacciarti più...
-Non attendermi
più, madre;
né d'estate né d'inverno.
Terra di Grecìa,
dal cielo chiaro, dalla campagna riarsa, dalle piante sempreverdi (e
il fico ne è il simbolo eterno): terra matrice di lingua e di
comportamenti, di pensiero; isola dai contorni vinti dallo sgretolamento
di ogni giorno, dalle tentazioni "italiane" che la sovrastano
e un poco alla volta continuano a cancellarla.
I destini ti siano propizi, o mio dolce paese, augurava Vito Domenico
Palumbo alla sua Calimera. Quel che è interessante, concludeva
il nobile poeta, sia linguisticamente che letterariamente, è
il dialetto greco e nella parlata e nella ricca messe di canti e di
racconti che in esso sono stati conservati. Ma anch'esso, auspice la
nuova barbarie che non intende come sì possa parlar l'italiano
anche sapendo parlar il greco dei propri antenati, e crede incivilirsi
disprezzandolo; anche esso, il nostro dialetto, se ne andrà fra
poco; e di lui alla nostra vecchia e cara patria greca non resterà
altro che qualche parola fusa nel dialetto neolatino che prevarrà,
e il suo splendido nome di Calimera, che è un saluto (vuol dire
Bel dì o Buon dì) e che nessun figlio degenere e rinnegato
le potrà strappar via.
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