Ne sono stati
censiti, nell'intera penisola salentina, quarantasette, nove dei quali
allo stato di "frammento"; di altri quarantasette se ne tramanda
la memoria: pietrefitte scomparse per vandalismo, per incuria, per disamore.
Con otto menhir,
Giurdignano è quasi la "capitale" di questo Salento
megalitico. Il più maestoso, (Cosimo De Giorgi lo denominò
"Vicinanza II"), raggiunge i quattro metri: regale, nella
selva di pietrefitte giurdignanesi (Fàusa, Madonna di Costantinopoli,
Monte Tòngolo. San Vincenzo. Vicinanza I, Vicinanza II, San Paolo,
Palanzano) che ancora oggi ripropongono fascino e mistero della loro
presenza: segni di remoti passaggi di popoli migratori? espressione
del culto dei morti o delle divinità? Alti, stilizzati, parallelepipedi
con i lati maggiori rivolti ad oriente e ad occidente, si ritiene che
risalgano all'età del bronzo, tra duemila e mille anni prima
dell'era cristiana. Controverse le interpretazioni sulla presenza di
segni di croce incisi generalmente sulla facciata occidentale, o di
croci di pietra piantate in cima al menhir. E' credenza comune che si
sia trattato di una "cristianizzazione" delle pietrefitte,
(se ne incontrano anche trasformate in "Osanna"), al fine
di scongiurare la litolatria.
Vicino ai menhir, Giurdignano propone i dolmen, anche questi tra i più
cospicui della penisola salentina: sono sette La "capitale",
o se si vuole, quest'area che è il cuore della civiltà
neolitica dell'intero Sud, manco solo di una specchia, terzo elemento
tipico della preistoria locale, e terzo aspetto di un. mondo che vede,
ancora una volta, la pietra protagonista.
Sono a nord e a sud di Lecce. Campi Satentina ne conserva due, quella
denominata "Candido", e quella denominata "Sperti";
in condizione di frammento ne incontriamo una a Novoli, due a Lecce.
Altre sono sparse e quasi disperse. Ma due ciascuno ne hanno Galugnano,
Zollino, Carpignano, e tre Melpignano, Maglie e Muro Leccese. Prendono
i nomi dalle contrade agricole o dai quartieri paesani in cui sono ubicate.
Alcune hanno nomi splendidi: pietrafitta della Lete, a Galugnano; Staurotomea,
a Carpignano; della Minonna, a Melpignano; Cupa, a Scorrano; Madonna
di Costantinopoli, a Giurdignano; di Montevergine, a Palmariggi; di
San Giovanni Malcantone, a Uggiano La Chiesa. E forse proprio alla cristianizzazione
si devono tanti nomi di pietrefitte dedicate a Madonne o a Santi, o
che in qualche modo si riferiscono alla "Croce" (Crucemuzza,
a Maglie; Croce di Sant'Antonio, a Muro Leccese; del Crocefisso, ancora
a Muro Leccese; Croce di Palanzano, a Giurdignano; della Croce, a Cocumola;
Crucicche, ad Acaia; Croce di Bagnolo, a Cursi; e, nello stesso paese,
Croce alle Tagliate; e di una pietrafitta "Crucicche" si ha
memoria per Taviano; menhir che non citiamo a caso, perché -purtroppo
scomparso - era il più occidentale di tutte le pietrefitte esistenti
nella penisola salentina, il solo del versante jonico, in un'area che
pure è ricca di stazioni abitative in caverne su serre e su alture,
immediatamente all'interno).
Cosimo De Giorgi percorse un suo itinerario di scoperta e di dettagliata
descrizione dei menhir di Terra d'Otranto, e a lui si devono notizie
di tante pietrefitte oggi scomparse o ridotte a rudere. Notizie sparse
si ritrovano nelle "Note archeologiche di Terra d'Otranto"
che un francese innamorato del Sud, il Lenormant, pubblicò a
Parigi nella seconda metà del secolo scorso. Descrizioni e inventari
si debbono anche al Drago e, soprattutto, alle recenti ricerche del
Palumbo, che in molti casi ci ha reso una precisa iconografia delle
pietrefitte. Nicola Vacca, infine, con "Morte e resurrezione della
pietrafitta di Muro Leccese"; Maggiulli, con "Le nostre pietrefitte";
e, risalendo nel tempo, il Botti, con "Schiarimenti intorno alle
pietre ritte in Terra d'Otranto", insieme con una larga schiera
di studiosi e appassionati di cose salentine, hanno contribuito a tener
desto l'interesse per questo patrimonio archeologico, unico del genere
in Italia, e forse il più intatto - malgrado le rovine causate
dall'ignoranza, dal vandalismo e dal disamore - del mondo occidentale.
Occorre andare verso gli estremi lembi atlantici, infatti, e su aree
di gran lunga più ampie rispetto al Salento, per ritrovare analoghe
espressioni litiche: e proprio la presenza in territori così
lontani di menhir in tutto analoghi a quelli salentini ha dato luogo
alle interpretazioni più suggestive: certo, il menhir fu tra
le prime manifestazioni di un sentimento umano, e che fosse destinato
a un culto pagano degli dèi, o dei morti, o segno di uno stanziamento
tribale temporaneo o definitivo nel corso di migrazioni o di anabasi,
(grandi popoli migratori furono i Celti e i Pelasgi), può anche
avere un'importanza relativa: furono certo la testimonianza di una grande
epopea umana.
Se di espressioni di popoli migratori si tratta, forse il fascino cresce
a dismisura, non fosse altro perché l'avventura fu smisurata:
migrare, nell'età del bronzo, significava realmente sfidare l'ignoto,
le insidie di un mondo appena emerso dalle glaciazioni, con vegetazione
totalmente vergine, con micidiali sbalzi di temperatura e un'escursione
termica altissima, con incredibili problemi di alimentazione (cibo,
acqua) e di riparo. Certamente, si trattò di Popoli interi. e
non solo delle mitiche "tribù di cinquecento uomini"
di cui si ha notizia attraverso i classici; popoli che in qualche modo
dovettero lasciare "ceppi" sparsi, gruppi che poi diedero
origine ad altri popoli, con trasformazioni di lingua, usi, costumi,
secondo le esigenze dei luoghi e i modelli di vita che si svilupparono
nelle epoche successive.
La suggestiva ipotesi di un unico popolo che abitò l'Europa,
e che poi si divise, come da un grande tronco si aprono e allargano
i diversi e contrapposti rami, può trovare una sua conferma,
(non scientifica, almeno fino a questo momento, e con i documenti e
le testimonianze finora in nostro possesso). Come i menhir, anche i
dolmen non sono esclusivi del Salento. E certi principi tecnici, (di
costruzione, di orientamento solare), comuni a tutti i reperti megalitici,
non possono essere considerati casuali. Fu senza dubbio un'unica "legge",
fu un solo "pensiero" pur primordiale, o primigenio - a regolare
queste espressioni di un sentimento umano comune, cioé diffuso,
noto a tutti, e da tutti accettato in nome delle stesse credenze, degli
identici riti, di analoghi usi e costumi.
I menhir sono forse la più immediata e diretta testimonianza
di questa ipotesi, di questo comportamento dei protagonisti della preistoria
europea. Esserne i custodi gelosi è già un privilegio.
Purché se ne abbia coscienza, cioé consapevolezza, senso
della storia e amore per il proprio passato: quello, lontano, remoto,
se si vuole, e forse proprio per questo più affascinante, dal
quale veniamo, nello svolgersi del ritmo dei tempi.
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