§ IL CORSIVO

Morire di metropoli




Sergio Zavoli



Fra duemila anni, con l'attuale ritmo di crescita, si avrà un uomo su ogni metro quadrato della terra. Lungo i quattrocento metri d'altezza delle due "Babele" innalzate a Manhattan già si affacciano, da quarantaseimila finestre, i precursori di quel popolo di minotauri che potrebbe diventare un giorno l'umanità.

"Tra le forme di suicidio in corso - mi disse una volta Nicholas Timbergen - la più grandiosa è la progressiva concentrazione degli uomini nelle megalopoli. Vi si conduce una vita simile a quella dei polli d'allevamento. La vita umana è sempre più una corsa di topi inseguiti da un fiume in piena." Penso a quell'insoluto e sconvolgente mistero biologico che è il periodico genocidio volontario praticato dai lemmings, i roditori che ogni decina d'anni migrano a orde di milioni per annegare nel mare del Nord. E a ciò collego quarto ci dicono oggi i naturalisti sul canto degli uccelli, che non è affatto un canto di gioia, come credevamo, ma il segnale di un'"occupazione territoriale", lanciato per difendere ciascuno il proprio spazio. Vivremo, dunque, l'uno sempre più vicino all'altro e ciò, si sostiene, scatenerà l'aggressività accumulatasi dentro di noi. I teatri di guerra del futuro potrebbero essere non più i campi di battaglia, ma i luoghi del nostro vivere quotidiano; a sconvolgere il mondo potrebbero venire grandi tempeste esistenziali, qua e là già nell'aria. Di fronte a questa prospettiva c'è anche, per fortuna, chi è più ottimista. Renè Dubos, un biologo francese, ha elaborato la teoria dell'adattamento. Lo scienziato ci avverte che per poter ricomporre domani, l'equilibrio, sarà si necessario che prima esplodano nevrosi da concentrazione urbana e aumentino inquinamento, epidemie e fame, ma poi tutto tornerà normale perché l'uomo ha già dato prova, nei millenni, di saper trovare delle soluzioni, tutte le volte che ha messo in giuoco la sua sopravvivenza.
Bisognerà fermare, anzitutto, l'eccesso di popolazione. E' lo stesso Dubos a ricordarci che nell'età della pietra l'uomo si è evoluto in gruppi di cinquecento persone. La tribù preistorica e il villaggio neolitico non ne contavano più di tante. Era l'esatta "dimensione vitale". Fino a duecento anni la, del resto, l'Inghilterra e la Francia erano costituite da tanti villaggi, appunto, di cinquecento abitanti. "Si parla sempre della sovrappopolazione dell'India - avverte Dubos - ma l'India non è solo Calcutta; l'India è anche seicentocinquantamila villaggi di cinquecento persone".
E' questa la misura umana per vivere insieme? E' ancora vero ciò che diceva Platone, che una "città giusta" difficilmente potrebbe essere più grande del numero dei cittadini in grado di conoscersi tra loro? E' quanto ci si chiede in un tempo che vede l'uomo sempre più confuso con gli altri e sempre più solo, in uno spazio sempre più angusto e con un'esigenza di libertà, anche fisica, sempre più grande.

Un fiore inaugurale

In certi giorni, quando la notte ha pulito tutto il cielo, dalla mia casa di Monteporzio sono lontanamente visibili i monti d'Abruzzo; una sagoma incerta, appena afferrabile con gli occhi socchiusi perché a guardarla d'impeto se ne perdono i contorni che svaniscono e di nuovo traspaiono come qualcosa d'illusorio.
Ben ferma, anche se ogni mattina più nuova e allarmante, è invece l'immagine di ciò che sta sotto il mio sguardo; il cemento di Roma che viene a prendersi, con ogni sorta di astuzia e di abuso, un altro pò di queste tenere e indifese campagne.
Ho letto con emozione che dentro l'ombra sfuggente di quei monti lontani è germogliato qualcosa mai apparso prima in natura. Due botanici, in un angolo incorrotto dell'universo, hanno raccolto un fiore bellissimo: è della famiglia dell'Iris Marsica, ma al microscopio ha rivelato un cromosoma diverso.
L'Iris è fiorito a un centinaio di chilometri dalla cinta di una metropoli, a mille e più metri d'altezza, in un parco protetto da appena mezzo secolo. Quel Seme era nella materia da sempre e da sempre cercava di farsi vivo. In viaggio in una terra ostile, di continuo minacciato e respinto, ha finalmente trovato una zolla per fare, in pace, il suo ineluttabile lavoro. E' bastato recintare un briciolo di terra del nostro pianeta per dare al destino di un fiore la possibilità di realizzarsi. Quanti ignoti scopi della creazione insidiamo ogni giorno con l'illusione di appartenere al mondo per esserne i soli, perfetti, assoluti, ultimi protagonisti? Questa sovranità arrogante ci ha spinti a disporre della vita, di ogni forma di vita, come fossimo giustizieri dell'esistenza. In mezzo secolo sono scomparsi settecento razze animali e migliaia di specie vegetali, i mari e i laghi si son messi a morire, abbattiamo gli alberi, sconvolgiamo la terra, avveleniamo il cielo.
"Per vivere ci vorrà sempre tutto ciò che vive, e invece lo distruggiamo. Forse, non dico di no, i giovani sarebbero contenti di non farlo, ma gli si chiudono gli occhi... In tutta la natura c'è intelligenza e necessità, e tuttavia aggrediamo tutto per nulla. Non c'è più forza per non volerlo. Siamo votati a questo, ad essere sempre più deboli..." Non è l'accorato discorso di un ecologo: sono parole di Cechov, estratte da un racconto nel 1887 intitolato La zampogna. Può darsi, dunque, che il mondo vada così da sempre e che anche alleandoci per mandarlo di male in, peggio, sia pure per debolezza, non si riesca a distruggerlo più di tanto. Ma se siamo così stanchi, se per vivere ci siamo tanto indeboliti, teniamoci almeno la natura che, conoscendo la nostra indole, si lascia ancora afferrare per consentirci di sopravvivere. Ci manda persino un fiore nuovo, un messaggio, perché si possa ancora, almeno, dubitare.


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