Fra duemila anni,
con l'attuale ritmo di crescita, si avrà un uomo su ogni metro
quadrato della terra. Lungo i quattrocento metri d'altezza delle due
"Babele" innalzate a Manhattan già si affacciano, da
quarantaseimila finestre, i precursori di quel popolo di minotauri che
potrebbe diventare un giorno l'umanità.
"Tra le forme
di suicidio in corso - mi disse una volta Nicholas Timbergen - la più
grandiosa è la progressiva concentrazione degli uomini nelle
megalopoli. Vi si conduce una vita simile a quella dei polli d'allevamento.
La vita umana è sempre più una corsa di topi inseguiti
da un fiume in piena." Penso a quell'insoluto e sconvolgente mistero
biologico che è il periodico genocidio volontario praticato dai
lemmings, i roditori che ogni decina d'anni migrano a orde di milioni
per annegare nel mare del Nord. E a ciò collego quarto ci dicono
oggi i naturalisti sul canto degli uccelli, che non è affatto
un canto di gioia, come credevamo, ma il segnale di un'"occupazione
territoriale", lanciato per difendere ciascuno il proprio spazio.
Vivremo, dunque, l'uno sempre più vicino all'altro e ciò,
si sostiene, scatenerà l'aggressività accumulatasi dentro
di noi. I teatri di guerra del futuro potrebbero essere non più
i campi di battaglia, ma i luoghi del nostro vivere quotidiano; a sconvolgere
il mondo potrebbero venire grandi tempeste esistenziali, qua e là
già nell'aria. Di fronte a questa prospettiva c'è anche,
per fortuna, chi è più ottimista. Renè Dubos, un
biologo francese, ha elaborato la teoria dell'adattamento. Lo scienziato
ci avverte che per poter ricomporre domani, l'equilibrio, sarà
si necessario che prima esplodano nevrosi da concentrazione urbana e
aumentino inquinamento, epidemie e fame, ma poi tutto tornerà
normale perché l'uomo ha già dato prova, nei millenni,
di saper trovare delle soluzioni, tutte le volte che ha messo in giuoco
la sua sopravvivenza.
Bisognerà fermare, anzitutto, l'eccesso di popolazione. E' lo
stesso Dubos a ricordarci che nell'età della pietra l'uomo si
è evoluto in gruppi di cinquecento persone. La tribù preistorica
e il villaggio neolitico non ne contavano più di tante. Era l'esatta
"dimensione vitale". Fino a duecento anni la, del resto, l'Inghilterra
e la Francia erano costituite da tanti villaggi, appunto, di cinquecento
abitanti. "Si parla sempre della sovrappopolazione dell'India -
avverte Dubos - ma l'India non è solo Calcutta; l'India è
anche seicentocinquantamila villaggi di cinquecento persone".
E' questa la misura umana per vivere insieme? E' ancora vero ciò
che diceva Platone, che una "città giusta" difficilmente
potrebbe essere più grande del numero dei cittadini in grado
di conoscersi tra loro? E' quanto ci si chiede in un tempo che vede
l'uomo sempre più confuso con gli altri e sempre più solo,
in uno spazio sempre più angusto e con un'esigenza di libertà,
anche fisica, sempre più grande.
Un fiore inaugurale
In certi giorni,
quando la notte ha pulito tutto il cielo, dalla mia casa di Monteporzio
sono lontanamente visibili i monti d'Abruzzo; una sagoma incerta, appena
afferrabile con gli occhi socchiusi perché a guardarla d'impeto
se ne perdono i contorni che svaniscono e di nuovo traspaiono come qualcosa
d'illusorio.
Ben ferma, anche se ogni mattina più nuova e allarmante, è
invece l'immagine di ciò che sta sotto il mio sguardo; il cemento
di Roma che viene a prendersi, con ogni sorta di astuzia e di abuso,
un altro pò di queste tenere e indifese campagne.
Ho letto con emozione che dentro l'ombra sfuggente di quei monti lontani
è germogliato qualcosa mai apparso prima in natura. Due botanici,
in un angolo incorrotto dell'universo, hanno raccolto un fiore bellissimo:
è della famiglia dell'Iris Marsica, ma al microscopio ha rivelato
un cromosoma diverso.
L'Iris è fiorito a un centinaio di chilometri dalla cinta di
una metropoli, a mille e più metri d'altezza, in un parco protetto
da appena mezzo secolo. Quel Seme era nella materia da sempre e da sempre
cercava di farsi vivo. In viaggio in una terra ostile, di continuo minacciato
e respinto, ha finalmente trovato una zolla per fare, in pace, il suo
ineluttabile lavoro. E' bastato recintare un briciolo di terra del nostro
pianeta per dare al destino di un fiore la possibilità di realizzarsi.
Quanti ignoti scopi della creazione insidiamo ogni giorno con l'illusione
di appartenere al mondo per esserne i soli, perfetti, assoluti, ultimi
protagonisti? Questa sovranità arrogante ci ha spinti a disporre
della vita, di ogni forma di vita, come fossimo giustizieri dell'esistenza.
In mezzo secolo sono scomparsi settecento razze animali e migliaia di
specie vegetali, i mari e i laghi si son messi a morire, abbattiamo
gli alberi, sconvolgiamo la terra, avveleniamo il cielo.
"Per vivere ci vorrà sempre tutto ciò che vive, e
invece lo distruggiamo. Forse, non dico di no, i giovani sarebbero contenti
di non farlo, ma gli si chiudono gli occhi... In tutta la natura c'è
intelligenza e necessità, e tuttavia aggrediamo tutto per nulla.
Non c'è più forza per non volerlo. Siamo votati a questo,
ad essere sempre più deboli..." Non è l'accorato
discorso di un ecologo: sono parole di Cechov, estratte da un racconto
nel 1887 intitolato La zampogna. Può darsi, dunque, che il mondo
vada così da sempre e che anche alleandoci per mandarlo di male
in, peggio, sia pure per debolezza, non si riesca a distruggerlo più
di tanto. Ma se siamo così stanchi, se per vivere ci siamo tanto
indeboliti, teniamoci almeno la natura che, conoscendo la nostra indole,
si lascia ancora afferrare per consentirci di sopravvivere. Ci manda
persino un fiore nuovo, un messaggio, perché si possa ancora,
almeno, dubitare.
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