§ Rapporto Svimez

Cifre in rosso per il Sud




Enrico Surdo



Gli investimenti industriali scesi del sette per cento, quelli dell'edilizia del quattro per cento. Aumenta l'occupazione nell'agricoltura, ma diminuiscono prodotto e reddito. Ingenti i residui passivi delle Regioni.

Il Rapporto Svimez sul Mezzogiorno (il terzo che il professor Pasquale Saraceno presenta dal 1975 ad oggi) invita a "meditare sulla ristrettezza del margine di adattamento e di resistenza che la società meridionale è ancora in grado di offrire", e sulla necessità, quindi, di avviare politiche che siano in grado di conciliare l'obiettivo del risanamento dell'economia con "quello della riduzione del divario tra il Nord e il Sud." Nel 1976 il Mezzogiorno ha potuto fare ancora affidamento su alcuni "margini di adattamento", ma proprio in quest'anno si è visto che un'operazione del genere viene ormai pagata con un ulteriore deterioramento della struttura produttiva, sociale e civile delle regioni meridionali. Del resto, va sottolineato che è proprio l'osservatorio meridionale che consente di cogliere per intero i limiti e la fragilità della ripresa congiunturale che si è avuta nel corso del '76.
L'anno scorso - com'è noto - il reddito nazionale è aumentato di circa il sei per cento; l'aumento, però, è stato di appena il 2,2 per cento nel Mezzogiorno. Solo nell'industria l'incremento percentuale del prodotto è stato, nel Sud, uguale, anzi leggermente superiore rispetto al Centro e al Nord. Ma paradossalmente, questo fenomeno più che esprimere un dato positivo, riflette la caratteristica particolare della ripresa industriale: trattandosi di una ripresa che ha fatto leva sulla utilizzazione di margini produttivi inutilizzati, e non, su nuovi investimenti, le cose sono andate avanti in maniera analoga a Nord come a Sud. Gli effetti generali di questo andamento sono stati però assai diversi tra regioni settentrionali e meridionali, dal momento che al Sud la partecipazione dell'industria alla formazione del prodotto complessivo è ancora al di sotto del 20 per cento (nel Nord è invece del 36 per cento). Il quadro si completa se si tien conto che gli investimenti industriali nel Sud sono scesi del 7 per cento, e quelli nel settore edilizio del 4 per cento.
Quali sono stati allora i "margini di adattamento" utilizzati nel '76? Chiusa la valvola dell'emigrazione, venuti meno nuovi investimenti, bloccata anche l'attività edilizia, il Sud ha fatto fronte all'accumularsi di una offerta di lavoro non solo attraverso un aumento della disoccupazione palese, ma anche attraverso un rifluire di addetti all'agricoltura e nel settore terziario. Per la prima volta in motti anni, il settore primario ha visto sensibilmente aumentare il numero degli occupati (+2,2 per cento), ma questo maggiore carico di forza di lavoro, gravando su un'agricoltura ormai strutturalmente incapace di dare un reale contributo produttivo, si è tradotto, nonostante un aumento degli investimenti del 7,3 per cento, in una caduta verticale del reddito agricolo (-13 per cento), frutto anche di una caduta verticale del prodotto agricolo lordo (-11 per cento). Un fenomeno analogo si è verificato nel settore terziario, i cui occupati sono aumentati di oltre mezzo milione di unità, mentre il prodotto è cresciuto di meno: di conseguenza, si è abbassato anche il reddito medio per addetto.
Il processo di impoverimento in termini generali comporta, com'è logico, anche un peggioramento della qualità della vita, La crisi edilizia nel Sud è stata grave, oltre che sotto il profilo produttivo (calo degli investimenti) e dell'occupazione (-1,3 per cento), anche in ordine al bisogno di nuove abitazioni. Nel 1976 sono state completate poco più di 24 mila abitazioni, con circa 100.000 stanze, mentre le famiglie sono aumentate di circa 100 mila unità e la popolazione di 190 mila persone. Le condizioni abitative nel Sud continuano a peggiorare rispetto al censimento del '71, mentre è diminuita anche la disponibilità di spazio abitativo.
Altro dato, quello relativo all'"apporto di risorse esterne": contributi pubblici, spesa pubblica, ecc. L'apporto non è stato irrilevante; è stato, addirittura, superiore al valore della produzione industriale. Questo apporto esterno ha reso meno accentuato il divario tra Nord e Sud: come mai, allora, le cose nelle regioni meridionali continuano ad andar male? Occorre chiarire innanzitutto che nel '76 è nettamente calato in termini reali il contributo della Cassa per il Mezzogiorno; sempre in termini reali sono calati anche gli investimenti delle imprese pubbliche e quelli dei grandi gruppi. Infine, le regioni meridionali hanno accumulato residui passivi per 2.000 miliardi di lire: ciò significa che i difetti dello Stato centrale si stanno ripetendo a livello regionale.
Conclusioni del Rapporto tutt'altro che ottimistiche: ridimensionamento, del resto già in atto, dei programmi dei grandi gruppi, estrema incertezza sul rilancio degli investimenti, aggravamento strutturale all'interno del Sud, prospettiva di una riduzione delle risorse portate dall'esterno, e, di pari passo, impossibilità di utilizzare ancora come ammortizzatori l'agricoltura e il settore terziario: tutti fatti che, mentre non sembra trovare uno sbocco rapido la crisi del Paese, indicano una curva discendente nel grafica dello sviluppo delle regioni meridionali.


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