Gli uomini che
hanno abbandonato la terra d'origine, andando a lavorare oltre frontiera,
nei diversi paesi della Cee, sono ormai poco più di dieci milioni.
Gli italiani (in massima parte meridionali) in vetta alla classifica.
Nella Comunità
economica europea i lavoratori emigranti hanno raggiunto una notevole
consistenza: sono ormai poco più di dieci milioni, e in pratica
rappresentano il decimo Stato della Comunità stessa. Più
ancora che i singoli Stati, la Cee doveva farsi carico - com'è
stato scritto - della massa immensa di problemi umani prima, ma anche
sociali ed economici, previdenziali e assistenziali, e infine scolastici
e culturali, che il mondo degli emigranti rappresenta e porta con sé.
Una Comunità che non sacrifica l'uomo all'economia, che fonda
la sua costruzione sui principi comunitari di giustizia, libertà,
dignità, avrebbe misurato in questo campo la sua capacità
e la concretezza della sua proposta.
L'impegno di cui va dato atto, al di là dei limiti che metteremo
in rilievo, si è rivolto in due direzioni: promuovere azioni
proprie in alcuni settori; coinvolgere gli Stati membri attraverso i
regolamenti e le direttive, intervenendo con azioni comunitarie, Le
azioni dirette promosse dalla Cee riguardano, in particolare, interventi
nel settore dell'istruzione professionale, interventi per gli alloggi
attraverso la Ceca (Comunità per il carbone e l'acciaio), interventi
vari e diversi attraverso il Fondo sociale e il Fondo regionale. Agli
Stati membri si è imposto di rispettare e far rispettare i numerosi
regolamenti in materia, particolarmente quelli riguardanti la libera
circolazione, la sicurezza sociale, il riconoscimento di alcuni titoli
di studio, l'esercizio dei diritti sindacali, e via dicendo. E' ormai
notevole il numero delle sentenze dell'Alta Corte di Giustizia del Lussemburgo
per dirimere le vertenze.
Anche se a tutti i lavoratori emigranti va assicurata la stessa tutela
e la possibilità di esercitare pienamente i loro diritti, da
un punto di vista giuridico e rispetto ai provvedimenti legislativi
adottati e possibili, essi vanno divisi in: lavoratori comunitari; lavoratori
provenienti da paesi associati; lavoratori provenienti da paesi terzi.
In questa sede ci interessano i primi, anche perché gli italiani
sono quelli che più di tutti alimentano queste schiere: non per
niente, il numero dei nostri emigranti è in cima alla graduatoria
europea, e tra i più alti - come posizione - nella classifica
fra i paesi planetari esportatoti di "braccia da lavoro".
Per la legislazione comunitaria, a ciascun lavoratore cittadino di uno
Stato membro delle Comunità europee è riconosciuto il
diritto di esercitare un'attività in ogni paese comunitario,
alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato in cui si è
recato a lavorare. Sul piano giuridico-legislativo, la tutela, se non
è totale, è assai ampia, e copre in tutto i rapporti di
lavoro e il rispetto di certe libertà formali. Sul piano pratico
e sostanziale, una grande distanza separa ancora i livelli di tutela
e di servizi garantiti ai cittadini del posto e ai cittadini comunitari.
Per quel che riguarda la libera circolazione, è prevista la possibilità
di ingresso di tutti i famigliari dell'emigrante nello Stato in cui
esso si trova ed esercita di fatto l'attività lavorativa. In
ordine alla sicurezza sociale, è prevista l'adozione di un sistema
uniforme di pagamento degli assegni famigliari; l'estensione agli anziani,
ai minorati, e ai disoccupati, delle stesse provvidenze e della stessa
tutela sociale garantita ai cittadini del posto; l'adozione di una normativa
comunitaria a favore dei lavoratori autonomi. Queste garanzie, attualmente
in discussione presso la Commissione esecutiva del Consiglio europeo,
dovrebbero entrare in vigore entro la fine del 1978. Altre garanzie
sono previste nel campo dei servizi sociali: problemi della scuola,
parità dei titoli di studio, e, forse a partire dal 1980, la
creazione di case per lavoratori emigranti. Aspetto, quest'ultimo, assai
articolato e complesso, dal momento che comporta tutta una serie di,
problemi collaterali, soprattutto nel settore dei servizi civili e dei
beni sociali.
Gli italiani, abbiamo detto, hanno un particolare interesse alla soluzione
di tutti i problemi in agenda sul piano giuridico-legislativo comunitario.
Va sottolineato, vero, che i nostri emigranti non hanno varcato solo
le frontiere degli altri otto paesi della Cee. Il numero degli italiani
(ancora una volta, dobbiamo ripetere, in particolare i meridionali)
che lavora in Svizzera è cospicuo; quelli che hanno varcato l'oceano
e si sono stabiliti nelle due Americhe, se sommati agli oriundi, figli
dei trasmigranti delle prime ondate, sono ancora molti di più.
Per una visione il più possibile completa dei dati, presentiamo
questo prospetto, riguardante gli italiani presenti nei paesi di tutto
il mondo (dati provenienti da rilevazioni MAE e UCEI, al 31-12-1974):
E' molto difficile formare un quadro degli italiani nei Paesi extra-europei,
anche perché occorre cercare di distinguere le unità di
emigrazione da quelle oriunde. Tentiamo di farlo, utilizzando i dati
che ci sono stati messi a disposizione dal Ministero degli Esteri.
Tirando le somme, nell'Europa comunitaria risiedono un milione e 780.329
emigranti italiani (sei paesi: Benelux, Francia, Repubblica Federale
Tedesca, Gran Bretagna; gli italiani presenti in Danimarca e nell'Irlanda
registrano una cifra insignificante ai fini della rilevazione statistica
comunitaria). Per quel che riguarda i paesi "associati" alla
Comunità economica europea (Grecia e Turchia), i dati riguardano
solo lo Stato asiatico (con poco più di quattromila italiani
presenti), dal momento che la Penisola Ellenica non offre interessanti
prospettive di lavoro. Infine, per quel che concerne i paesi "aspiranti"
(Portogallo e Spagna), gli italiani emigrati sono complessivamente poco
meno di ventimila.
L'emigrazione italiana, dunque, si è sufficientemente articolata
verso i diversi paesi di tutti i continenti. Una rilevazione approssimata
per difetto, (è pressoché inesistente una statistica con
cifre esatte in merito), indica il numero dei meridionali emigrati,
sul complesso italiano, pari all'ottanta per cento.
Al di là dei paesi extra-comunitari, vediamo ora quali sono le
condizioni geo-demografiche degli Stati che, in un modo o nell'altro,
sono coinvolti nel discorso comunitario.
Uno degli aspetti più evidenti di queste rilevazioni è
il seguente: i paesi associati, su una popolazione attiva complessiva
di circa venti milioni di unità, hanno altissimi indici di addetti
all'agricoltura (la Grecia il 46 per cento, la Turchia addirittura il
69 per cento): globalmente, il bacino medio-orientale europeo presenta
una popolazione dedita all'agricoltura pari a circa tredici milioni
di unità. Per quel che riguarda gli addetti al settore primario
nei paesi aspiranti, si raggiunge la cifra complessiva di 5 milioni
e 200 mila unità. In altri termini, una volta ampliata la Cee,
con l'ingresso a tutti gli effetti di Spagna, Portogallo, Grecia e Turchia,
si riverseranno nel mondo del lavoro comunitario 18 milioni di agricoltori:
l'Italia che è al centro di quest'Europa "meridionale"
e povera, dovrà trasformare, ristrutturare e attrezzare la propria
agricoltura, potenziandone addirittura in modo raffinato i canali commerciali,
entro un brevissimo periodo di tempo. Altrimenti, la concorrenza sarà
tale, che dovrà produrre solo per i consumi interni (se anche
questi non saranno invasi dai prodotti mediterranei), o dovrà
riaprire le frontiere ad una nuova ondata migratoria, verso economie
più ricche, con posti di lavoro più remunerativi. Ipotesi
del tutto probabile, anche se i problemi dell'emigrazione si vanno complicando
per la crisi che, in un modo o nell'altro, ha investito i vari paesi:
in alcuni in modo clamoroso, per l'interna debolezza produttiva; in
altri, in maniera meno appariscente, ma non per questo meno grave (è
il caso della Repubblica Federale Tedesca, ove si registrano ormai un
milione di disoccupati), con le conseguenze che erano da aspettarsi:
sul lastrico restano primi fra gli altri gli emigrati (e anche per questi
c'è una precisa graduatoria: primi turchi e i greci, poi gli
jugoslavi, gli spagnoli e i portoghesi, infine gli italiani; per i nordafricani,
il problema nemmeno si pone, perché si adattano ai lavori più
umili, sono privi di tutela giuridico-legislativa e di assistenza sociale,
ecc.); dopo gli emigrati, tocca ai cittadini lavoratori locali. Da qui,
la cosiddetta migrazione di ritorno, migrazione forzata, non volontaria,
che ritrova nel paese d'origine, e da noi in particolare, un'economia
che non è in grado di assicurare un reinserimento nel mondo del
lavoro. E da qui, com'è logico, i traumi per chi, abituato al
salario e alla tuta blu, torna alle origini, disoccupato e, se non ha
accantonato una cifra consistente durante gli anni di lavoro all'estero,
senza alcuna valida prospettiva.
Quello dell'emigrazione italiana ed europea, come è possibile
vedere, è un problema molto complesso. Dirigere quest'emigrazione
altrove, non avrebbe senso: i paesi africani e medio-orientali sono
si in via di sviluppo, in particolare quelli petroliferi, ma hanno anch'essi
problemi enormi, e sono chiusi da vincoli spiccatamente nazionalistici;
si dice che, se la Svizzera manderà via gli emigrati, avrà
nel giro, di due mesi un vero e proprio collasso economico: ed è
vero; ma è anche vero che a scadenze ormai fisse si ripresentano
manie xenofobe, che solo con una rigorosa legislazione limitatrice dell'immigrazione
è forse possibile in seguito vanificare. Situazione difficile,
per tutti gli Stati: i quali dovranno sviluppare le loro economie, armonizzandole
all'interno e in un contesto comunitario e internazionale. Ciascuno,
ormai, dipende da tutti, e al di fuori di un concerto comune non c'è
scampo. Da qui, oltre tutto, la necessità dell'unione europea,
senza la quale nessun paese del vecchio continente, nell'area occidentale,
per quel che ci riguarda, ha più un possibile futuro.
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