Riflessioni sull'unificazione monetaria europea




Paolo Maizza



I. Come processo di megaeconomia foriero di implicazioni molteplici, economiche e metaeconomiche di dimensioni che trascendono i confini di una collettività, l'unifìcazione monetaria dell'Europa comunitaria non poteva, nella mente e nell'azione dell'uomo, non articolarsi e svilupparsi per gradi. La prima importante tappa di questo processo macrounificatore fu segnata nel noto accordo sulla oscillazione congiunta dei cambi. Reso valido nella terza decade di aprile 1972, l'accordo europeo sull'oscillazione ristretta dei cambi (o, come viene chiamato in gergo ormai tecnico, il "serpente monetario europeo") ha subito manifestato la sua fragilità. Esso non ha retto né all'ondata di speculazione che investì la sterlina nel giugno 1972, né alla seconda svalutazione del dollaro (febbraio 1973), né all'esplosione dei prezzi del petrolio (dicembre 1973). Uno dopo l'altro, si sono visti costretti a recedere dall'accordo tre paesi: la Gran Bretagna, l'Italia e la Francia. Quest'ultima, che pure era la più convinta assertrice della fluttuazione ristretta dei cambi nell'ambito della CEE, è uscita dal "serpente" una prima volta nel 1974, all'indomani della crisi petrolifera, è rientrata nel luglio 1975, in un periodo di relativa calma dei mercati valutari, è uscita nuovamente nel marzo 1976 a seguito dei pesanti cedimenti della lira e della sterlina.
Attualmente, dell'accordo sull'oscillazione congiunta dei cambi fanno parte la Germania Federale, i paesi del Benelux e la Danimarca. A quest'accordo si sono associati la Svezia e la Norvegia, che non sono paesi membri della CEE. Poiché le monete di questi paesi sono guidate dal marco tedesco, più che di area monetaria europea, sembra pertinente parlare oggi di "area del marco".
I motivi per cui l'accordo monetario europeo si è dimostrato di così scarsa consistenza, sono facilmente individuabili per chi abbia seguito la disputa fra i cosiddetti "economisti" e i cosiddetti "monetaristi", disputa che precedette, con toni vivaci e spesso aspri, la formulazione dei piani Barre e Werner, relativi appunto all'integrazione monetaria europea.
Gli economisti, come si sa, sostenevano la tesi che l'unificazione monetaria dovesse essere preceduta dall'integrazione economica, volta a realizzare un coordinamento delle politiche economiche dei paesi comunitari e la loro convergenza verso l'eliminazione o, quanto meno, verso l'attenuazione dei persistenti divari tra paesi in posizione forte e quelli in posizione debole. L'integrazione economica - essi sottolineavano - costituisce la premessa indispensabile per l'integrazione monetaria, mentre quest'ultima è la naturale conseguenza della prima.
Per parte loro, i monetaristi, impazienti per gli scarsi progetti che registrava il discorso sul piano dell'approfondimento europeo, indicavano un percorso diverso. Convinti che il processo della integrazione economica, oltre a una forte volontà politica, esigesse il superamento di numerosi ostacoli e condizionamenti di ordine economico, politico e sociale (superamento che non poteva avvenire che in un arco di tempo relativamente lungo), essi sostenevano la necessità di porre la Comunità di fronte a un fatto compiuto, capace di rimuovere gli accennati ostacoli e di attenuare gli adombrati condizionamenti. L'unificazione monetaria avrebbe costretto i paesi della Comunità, volenti o nolenti, ad operare nelle loro economie gli aggiustamenti in direzione della loro integrazione. Pare - ricordando una fuggevole osservazione di Guido CARLI - che i monetaristi ragionassero nei termini che altri, in altri tempi, disse della politica in generale: "l'intendance suivra". "Si conduca una certa politica, l'intendenza prima o poi seguirà".
Oggi, senza indulgere al senno del poi, si può affermare che i monetaristi abbiano sopravvalutato la volontà politica per la realizzazione di una vera e propria comunità economica, e non prequantificate le difficoltà di ordine economico e metaeconomico di cui è disseminata la strada di tale realizzazione. Essi hanno fatto avanzare prima le salmerie, convinti o, per lo meno, fiduciosi che sarebbero state seguite dall'esercito.
II. La prima tappa verso l'unificazione monetaria europea è costituita da una decisa volontà politica cui deve seguire il processo verso l'unificazione economica, in generale, nelle varie fasi o momenti in cui esso si può articolare e sviluppare. Questa unificazione, a sua volta, presuppone l'unificazione delle istituzioni finanziarie, un vasto mercato finanziario europeo caratterizzato da una legislazione comune in materia di società per azioni, di borse valori, di imposizione fiscale sui redditi da valori mobiliari di qualsiasi specie; presuppone anche un regime fiscale omogeneo, particolarmente per le società; presuppone insomma un sistema istituzionale uniforme entro il quale compiere il processo di unificazione. E tale uniforme sistema vuol significare, meglio, uniformità tra gli Stati europei in termini di saggi di interessi e di remunerazione dei capitali, livelli di reddito di lavoro, saggi di svalutazione monetaria. Occorre livellare preliminarmente le punte di minimo e di massimo espresse da quegli indicatori o parametri economici di macro, per indi pensare ad un processo di unificazione monetaria a livello europeo. Occorre, insomma, tutta una coordinata serie di azioni che vorremmo definire di "preunione monetaria", il cui epilogo dovrebbe coincidere con l'abbrivo dell'uso della moneta europea. E va soggiunto che questa "fase di preunione" richiede dell'altro. Richiede altresì validi accorgimenti istituzionali finalizzati per aiuti reciproci, tra gli Stati, e la disponibilità, da parte sia dei Paesi a struttura economica forte, sia dei Paesi a struttura economica debole, ad accettare i costi che inevitabilmente quel sistema istituzioni uniforme comporterà.
Orbene, nulla di tutto ciò è stato finora realizzato, nè da parte dei grandi, nè da parte dei piccoli Paesi che formano la Comunità.
Per quanto concerne il nostro Paese, ben poco o quasi nulla è stato fatto in materia di riforma della disciplina delle società per azioni e delle borse valori, di fondi comuni di investimento, di adeguamento della nostra legislazione fiscale concernente i valori mobiliari a quella vigente nel resto della Comunità Economica Europea. Anzi, è stata ulteriormente dilatata quella divergenza esistente nel trattamento tributario dei redditi da valori mobiliari, sicché si sono ingigantiti quei movimenti di capitali - croce e disperazione della nostra "bilancia dei pagamenti" - che ci si affanna di reprimere col ricorso a misure di carattere amministrativo.
Certamente, l'Europa comunitaria oggi è in una situazione di completo abbandono. L'anno venturo tuttavia essa assisterà a un evento politico di singolare portata storica: l'elezione del Parlamento europeo a suffragio diretto. E', pertanto, augurabile che, superate le difficoltà economiche e finanziarie in cui si dibattono alcuni Paesi europei, fra cui il nostro, i Governi della Comunità, accogliendo le istanze e le pressioni del Parlamento comunitario, riprendano il cammino verso l'unificazione economica e monetaria europea, cammino che i sussulti del sistema monetario Internazionale prima, e la "crisi del petrolio", poi, hanno paurosamente arrestato.
Ma chi scrive nutre non poche perplessità sulla attuazione di un processo di unificazione europea della moneta, a cagione anche e non di meno del disordine monetario che è presente nei sistemi economici dei singoli Stati europei. Ed è ben chiaro che in tanto è possibile pensare all'unione monetaria europea, in quanto si ha contezza delle anomalie, delle asimmetrie e squilibri insiti nel circuito delle varie monete europee. Fra l'altro, occorre prima mettere ordine all'interno degli ordinamenti monetari dei singoli Paesi europei e tra gli ordinamenti monetari dei diversi stessi paesi, per poi pensare ad un processo di unificazione economica e monetaria a livello europeo.
A tal proposito, sappiamo che, a cagione di non pochi avvenimenti, gli Stati europei non possono controllare gli effetti interni ed esterni delle variabili internazionali e che le imprese europee soffrono di vincoli, di limitazioni e di condizionamenti derivanti loro da quelle variabili, sicchè esse mancano soprattutto di sicure prospettive di tranquilla sopravvivenza.
Chi discetta intorno alle condizioni di vita delle imprese europee, deve darsi ragione dello stato di crisi di ambiente e di impresa perdurante in Europa. Mutamenti verificatisi nel mondo, nell'ultimo trentennio, hanno provocato profonde modificazioni politiche, economiche, scientifiche e tecnologiche nell'ambiente europeo. Si tratta di accadimenti non prevedibili, determinatori, nella loro disorganicità e complessità, di problemi di difficile risoluzione. Un dinamismo convulso e un processo di trasformazione incontrollato si sono riflessi sull'ambiente europeo, determinando la crisi, l'emarginazione e il superamento di talune delle sue componenti più statiche.
Analogamente a quanto verificatosi nell'ambiente europeo per effetto di intense spinte delle variabili esterne, nelle imprese d'Europa sì sono determinati sfasamenti o situazioni di asincronia: non poche, anzi molte imprese non hanno potuto e saputo adeguare il proprio comportamento ed il proprio ritmo di crescita agli effetti portati da quei profondi mutamenti, innanzi appena adombrati.
Crisi politiche, economiche, sociali e culturali hanno inciso sull'ambiente europeo e, in connessione con esse, si sono determinate le varie crisi congiunturali e quella crisi di pensiero e quello stato di disordine che sono divenuti elementi caratterizzatori delle economie di numerosi Stati nazionali europei.
Nel nostro Paese, sono stati congetturati e posti in essere interventi pubblici volti a dare assistenza alle imprese malsane o non competitive. Ma tali interventi, ad esempio, non hanno sempre eliminato la causa fondamentale delle inefficienze di quelle imprese, perché il più spesso sono serviti solo a trasferire sullo Stato gli effetti della crisi della singola impresa.
Crisi di ambiente e crisi d'impresa appaiono, anzi sono, interconnesse e un segno cospicuo delle loro interrelazioni è il fenomeno della disoccupazione, il cui livello di gravità è in rapporto al grado di quelle crisi.
Ambiente-impresa è un rapporto che, per notevoli sfaccettature, si configura anche qui come rapporto di "causa-effetto", del quale la ricerca scientifica ha già illuminato molti aspetti di uniformità, aventi valore di legge di uniformità per la stessa osservazione scientifica.
Un tentativo di sintesi diagnostica della crisi dell'impresa, osservata a livello nazionale ed europeo, ci segnala le seguenti cause:
- una violenta abnorme crescita del salario ed una correlata brusca impennata del costo del denaro, a fronte delle quali si sono verificate "cadute di produttività" o "perdite di peso specifico" delle produzioni, cui hanno fatto seguito un indebolimento della capacità reattiva dell'impresa agli eventi di cambiamento di ambiente ed un "intorpidimento" della stessa struttura aziendale a tutti i livelli;
- l'impossibilità, per quei poli di produzione che sono le imprese, di tenere un comportamento adeguato alle disordinate e sorprendenti sollecitazioni delle variabili esterne, a motivo dell'adombrata convulsa dinamicità e conseguente imprevedibilità dell'ambiente circostante;
- l'inidoneità dei singoli Stati europei di controllare l'evoluzione dell'economia, a cagione delle loro malcerte e vacillanti strutture politiche.
Ed è di rapida intuizione, fra l'altro, il nesso naturale che sussiste, nella enucleazione che precede, tra controllo a funzione di controllo e funzione della previsione nell'ambiente e nell'impresa: il controllo presuppone l'atto del prevedere, laddove quest'ultimo è in funzione di un'azione di controllo.
Riguardate da una angolazione ravvicinata o tradotte in termini di concretezza e di massima intelligibilità, la crisi di ambiente e la crisi di impresa che investono il mondo europeo sono, per chi scrive, a dire il vero, "crisi d'impegno" o "crisi di volontà di lavoro". E ciò nella piena convinzione che, di là degli equilibrismi parolistici o degli sforzi di una certa fascia di politici di ricorrere al "mercato delle parole oscure", la matrice principale dei mali che affliggono il nostro, soprattutto, ed altri Paesi è nella povertà di quella attività umana, organizzata e coordinata per la produzione della ricchezza, è nella povertà, appunto, dell'amore per il lavoro.
Quanto alle anomalie o discrasie e squilibri presenti negli ordinamenti monetari degli Stati europei, è noto anzitutto che quel certo "ordine monetario internazionale" scaturito dagli accordi stipulati nel lontano 22 luglio 1944 a Bretton Woods, al termine di una conferenza monetaria e finanziaria realizzata dagli Stati Uniti d'America, condusse all'affermazione del potere politico degli stessi Stati Uniti nel mondo Occidentale sul piano monetario. Nel principio fondamentale di quegli accordi era l'istituzione di un sistema multilaterale di cambi fissi, in base al quale ciascun Paese aderente all'accordo avrebbe dovuto dichiarare inizialmente il valore in oro o in dollari della propria moneta.
Nei fatti, le enunciazioni degli accordi di Bretton Woods furono in buona parte smentite: si appalesarono, nel tempo, tendenze alla tutela di interessi specifici in contrasto con le esigenze degli altri Stati aderenti agli stessi accordi; il regime dei cambi fissi, in particolare, risultante da quegli accordi, si dimostrò largamente responsabile dei fenomeni di speculazione valutaria internazionale (talvolta definita "selvaggia"), i quali erano basati su di una discriminazione tra "monete forti" e "monete deboli" e venivano posti in atto con manovre di "denaro caldo". Ecco che nacquero e crebbero le principali difficoltà monetarie ed economiche internazionali e si avvertì la necessità, che ancora oggi si avverte, di riordinare il sistema monetario internazionale.
Non pochi furono i tentativi di sostituire gli accordi di Bretton Woods con intese volte a superare le principali difficoltà monetarie ed economiche dei Paesi europei e a riordinare il sistema monetario internazionale.
Orbene, il processo di unificazione monetaria europea è connesso, per via naturale, con il riordinamento del sistema monetario internazionale. E tale riordinamento presuppone il ristabilimento di una situazione di equilibrio di potere politico nel mondo intero. Nello stesso riordinamento del sistema monetario internazionale sono insite acconce misure di limitazioni di "sovranità monetaria", anche alla luce di quanto è accaduto con la "guerra del petrolio", decisa contro gli Stati Uniti d'America ma che, in effetti, ha segnato il rilancio del dollari i Paesi esportatori di petrolio richiedono che il pagamento del prezzo avvenga in dollari. E questo per tanti motivi che in questa sede non è possibile ricordare, per la tirannia del tempo! Basta rammentarne uno: agli Stati Uniti d'America si riconosce l'egemonia internazionale anche in campo monetario e dagli Stati Uniti quei Paesi esportatori di petrolio ricevono garanzie politiche, economiche e monetarie che nessun altro Paese può offrire.
L'egemonia del dollaro, anzi delle autorità monetarie degli USA, in campo internazionale, è una realtà che va riconosciuta ed accettata come la logica conseguenza della supremazia di potere, non solo economico-monetaria, degli stessi USA e della situazione di squilibrio di potere politico esistente nel mondo. Sono di generale acquisizione l'elevatissima quota di partecipazione degli USA negli organismi monetari internazionali e il conseguente effettivo loro potere direzionale o "di rotta" in campo monetario internazionale. E c'è da chiedersi, con il necessario quanto doveroso senso del positivismo che riconduce la politica ai suoi contenuti reali, al di fuori di ogni schema astratto o demagogico, quando mai potranno essere rimosse quelle adombrate condizioni quasi naturali o se piuttosto non sia, proprio per amore di concretezza, necessario e possibile preoccuparsi di attenuarne l'intensità!
L'ordine monetario internazionale conterrà il futuro ordinamento unificato monetario europeo: essi sono, pertanto, naturalmente interconnessi anche nei loro problemi di base e in tutte le conseguenti loro problematiche e implicazioni.
Il processo di revisione dell'"ordine monetario internazionale" non può essere basato soltanto su provvedimenti tecnico-monetari. Il problema monetario internazionale, al quale resta naturalmente legato quello dell'unione monetaria europea, è problema di relazioni internazionali e, perciò, va risolto essenzialmente sul piano politico, nell'area dei rapporti di potere fra Stati.
Ora, la soluzione del problema dell'unione monetaria europea va logicamente ricercata in sede politica e, quindi, in sede tecnico-economica. Occorre pensare dapprima all'unificazione politica dell'Europa, all'acquisizione di una "coscienza europea" da parte dei managers e degli operatori economici e, poi, pensare alla soluzione economica e tecnica ottimale del problema dell'unione monetaria europea.
E va soggiunto che per questa soluzione è necessario rammentare che l'ambiente europeo appare in "travaglio da cambiamento", occorre tener presente, quindi, che un'espressione di grande rilievo di questo travaglio è il già notato stato di permanente grave difficoltà in cui si dimenano le imprese europee. Sicché, chi parla di soluzione del problema dell'unione monetaria europea deve pensare anche alle imprese europee, quali naturali componenti del sistema economico europeo; deve considerare che queste imprese sono organismi economici soggetti a vincoli e condizionamenti, sono imprese condizionate e guidate dagli imparatavi della sopravvivenza, molto più di quanto lo siano quelle di altri ambienti e soprattutto le imprese americane.
In quanto cellule del tessuto economico europeo, le imprese europee sono da tener presenti, pur con i vincoli e i condizionamenti di cui soffrono, nei temi economici che sono trattati a livello europeo, come è, appunto, il tema dell'unione monetaria europea.
Orbene, l'unione monetaria europea è problema che postula soluzioni a livello politico, anzitutto, e soluzioni a livello economico e tecnico monetario. Nell'ottica di queste ultime soluzioni si colloca la necessità di provvedimenti idonei a sanare situazioni di squilibrio che perdurano nell'ambiente aziendale europeo: le imprese europee si trovano nel centro della bufera monetaria e dell'inflazione, esse risentono sensibilmente delle vicende del dollaro e hanno una competitività nel mercato internazionale che è pur sempre sensibile alla tendenza delle monete europee a rivalutarsi rispetto al dollaro.
Talune tra le più grandi imprese europee riescono a difendersi contro gli effetti delle vicende del dollaro, tal'altre traggono profitto da quegli effetti o dalla situazione di dominio degli USA. Ma il gran numero delle imprese subisce i rischi dei processi di aggiustamento delle altre monete rispetto al dollaro, connessi col non poter controllare le crisi economiche e col dover operare in condizioni di accresciuta imprevedibilità delle variabili di ambiente.
Va soggiunto opportunamente che non alligna ormai l'accusa che taluni muovono all'impresa europea, per aver essa il "profitto" come obiettivo: nell'ambiente aziendale europeo si dimostrano sempre più incisivi i rapporti sindacali e di lavoro, e più diffusa la volontà di "cogestione" e di "partecipazione" dei lavoratori ai processi decisionali ed agli utili dell'impresa.
Dalla cosiddetta "democrazia industriale" o "democratizzazione dell'economia" sono stati promanati modelli di partecipazione delle classi lavoratrici alle scelte di gestione dell'impresa, i quali, con un osanna al "potere sindacale", anziché vivacizzare appannano l'immagine dell'impresa come istituzione del tessuto socio-economico circostante, nel tentativo di pendere dialetticamente, uguale l'interesse del lavoratore a quello dell'azionista responsabile della gestione dell'impresa.
E non consideriamo volutamente quella sorta di configurazione unilaterale ed esasperata dall'impresa, soffiata in Europa dal credo dei cultori dell'economia collettivista, secondo cui l'impresa è una "organizzazione di lavoro associato" e il reddito d'impresa il "risultato della gestione del lavoro associato"!
Non va, poi, obliterato che, ben più di quanto accada per altre imprese, quelle europee sono, come già notato, "condizionate" e "guidate" dall'imperativo della sopravvivenza. E ciò per due principali ordini di motivi: per essere (le imprese europee) in gran numero di dimensione piccola o media e, quindi in posizione di difesa e di marginalità nei confronti delle sollecitazioni delle variabili esterne sfavorevoli; per dover, quelle imprese, operare su di un piano di inferiorità rispetto alle imprese USA, con le intuibili implicazioni sulla loro operatività ed efficienza economica.
III. Un provvedimento volto a sanare gli squilibri insiti nell'ambiente aziendale europeo, in funzione della soluzione ottimale del problema dell'unione monetaria europea, può essere la programmazione europea, la quale può essere conveniente ai fini di un ordinato e pluralistico sviluppo politico, economico, sociale, scientifico.
L'unione monetaria europea è problema - fa d'uopo rammentarlo - che deve essere risolto per gradi: a livello politico, in sede economica, con provvedimenti di tecnica monetaria correlati a fenomeni di macro-economia, naturalmente connessi con fenomeni micro-economici, quali sono, appunto, i fenomeni aziendali.
La ridda dei problemi che, in generale, si pongono in soluzione a livello europeo implica un progetto o un disegno globale fondato sul rapporto o equilibrio mobile tra obiettivi, da una parte, e risorse, dall'altra.
Unificazione economica dell'Europa è anzitutto unificazione politica degli Stati europei, e quest'ultima può conseguirsi attraverso la concordata predeterminazione di indirizzi generali, cui potrebbero farsi corrispondere le scelte politiche e tecniche e le realizzazioni dei singoli Stati e organizzazioni esistenti in Europa, al fine della ottimizzazione delle relazioni dinamiche tra obiettivi da un lato, e risorse, dall'altro, ai vari livelli di manifestazione della società.
Nel concetto di unificazione economica europea è l'affermazione che decisioni afferenti la sfera dell'"economico" influiscono sugli altri aspetti del campo sociale, talché si postula, in via metodologica, la necessità che politiche e tecniche di programmazione non possono prescindere dagli effetti dell'influenza dell' "economico" sul "sociale". Da qui la inopinabile opportunità che le "decisioni di piano" dell'Europa federale siano inglobate in guisa organica ed armonica in una "programmazione globale".
Con il suo carattere di globalità, la programmazione europea potrà consentire alle imprese europee una attenuazione dei vincoli e dei condizionamenti di cui soffrono, e permettere loro di porre a miglior profitto le condizioni positive di ambiente.
L'indicazione di un quadro socio-economico di riferimento potrà essere elemento riduttore della imprevedibilità degli avvenimenti socio-economici e, quindi, del grado di rischio delle scelte di impresa. Più valide o più efficaci dovrebbero essere le decisioni strategiche o di piano delle imprese.
Una metodologia di programmazione europea di globalità dovrà naturalmente far conto delle notevoli, appena adombrate differenziazioni esistenti in Europa nell'ambito dell'area delle imprese, nei contesti socio-economici locali e tra gli Stati.
Quella stessa metodologia non potrà, per altro, prescindere dalla incontrovertibile centralità, in senso economico e sociale, dell'impresa e della figura dell'imprenditore.
Se si ha ragione della funzione di struttura portante che l'impresa assolve in una economia libera, socializzata o auto-gestita, ci si dà conto del perché problemi o scelte in economia a livello nazionale o multinazionale debbano essere risolti nella conoscenza dell'impresa e nella adeguata valutazione del suo stato e del suo divenire: èpur sempre nell'impresa e solo in essa che nasce e si quantifica la validità economica di una iniziativa produttiva; è pur sempre nell'impresa e solo in essa che si formano i posti di lavoro, i motivi di occupazione e le condizioni di benessere sociale.
Ad onta di quello spirito di populismo o demagogico che fomenta la scioperomania e la conflittualità permanente nelle aziende, l'imprenditore va riguardato, in ogni sede ed a qualsivoglia livello di interventi, come figura capace di un'azione di sviluppo che utilizzi linee di pensiero elaborate in senso anti-ciclo, in guisa da eliminare od attenuare i "malus e porre a maggior profitto i "bonus" derivanti alla società dall'impresa.
E Dio non voglia che programmi o programmazioni, economici o sociali che siano, e lo stesso progetto di unificazione europea, non fosse altro perché pensati dalla politica o, peggio (ci auguriamo di no!), dalla demagogia, non abbiano, come purtroppo il più spesso accade, lo sterile e vacuo significato di un "libro dei sogni".

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