§ Archeologia sottomarina del Salento

Anfore dell'evo antico




Tonino Caputo



Una volta i fondali ionici e adriatici erano ricchi di reperti. I saccheggi, le rapine, i recuperi indiscriminati, hanno creato il vuoto, anche se ancora oggi è possibile localizzare numerosi "cimiiteri" di fronte a Otranto, nell'area di San Cataldo, e in quelle di Ugento, Gallipoli e Porto Cesareo.


I reperti archeologici sottomarini venivano in superficie casualmente, impigliati nelle reti o nelle attrezzature della pesca. Poi, si cominciò a ricercarli, dapprima per motivi di studio, in un secondo momento per farne oggetto di commercio clandestino. I fondali ionico e adriatico della penisola salentina erano ricchissimi di reperti. In particolar modo, si trattava di anfore, anche se non era molto raro rinvenire anche ancore, intere carene di navi da trasporto, proiettili di artiglieria (questi ultimi risalenti a tempi ben più recenti), e inoltre vasellame di vario tipo, colonne marmoree (anche queste!), e via dicendo. La presenza delle àncore e delle anfore era dovuta, ovviamente, ai naufragi delle navi da carico, frequenti al tempo della supremazia dei greci sul mare. Schematicamente, gli studiosi ritengono che una nave greca, di tonnellaggio medio, adibita al trasporto, avesse queste dimensioni: lunghezza, venticinque metri; larghezza, sette metri; lunghezza della chiglia, superiore ai sedici metri; altezza, oltre tre metri. Le vele erano di forma quadrata o rettangolare, sviluppavano una superficie di oltre 250 metri quadrati. La loro disposizione caratteristica "a stendardo" non conferiva certamente alle unità marittime facilità di manovra. E calafataggio veniva eseguito con canapa e pece greca. La chiodatura, salvo qualche rara eccezione, in rame o in bronzo. Una nave del genere, ritenuta - lo ripetiamo - di medio tonnellaggio, poteva trasportare circa trecento anfore, con un carico medio che superava di poco le cento tonnellate. Vi erano, ovviamente, navi minori ma anche scafi di gran lunga maggiori, che potevano imbarcare fino a cinquemila anfore. Tucidide, nella storia della guerra del Peloponneso, narra addirittura che gli ateniesi avevano una unità marittima del tonnellaggio di diecimila anfore.
L'anfora destinata al trasporto veniva chiamata, di norma, vale a dire nel linguaggio comune, "olearia" e "vinaria", a seconda dell'originario contenuto. Un altro tipo di denominazione la ricorda come "rodia", o "italica", o, infine, "greco-italica". Nel mare, riferisce in un suo indimenticato studio Raffaele Congedo, un appassionato archeologo dilettante, se ne rinvenivano di ogni tipo, di varia forma, dimensione, altezza, capacità. Si sono classificati, in seguito, anche i diversi prototipi. Nel nostro Paese, il Lamboglia, e poi il Roghi, hanno compiuto studi sulla nave romana di Albenga, che giace su un fondale fangoso, alla profondità di quarantadue metri, e su quella di Spargi, che si trova su un fondale di diciotto metri. Le anfore olearie e vinarie prese in considerazione sono da ascrivere al tipo "Dressel", databili al primo secolo a. C.: hanno una capacità di venti litri, e bolli in alfabeto "osco" di origine campana. Le recenti esplorazioni sottomarine, riferisce ancora Congedo, hanno accertato i motivi per cui la quasi totalità delle anfore da trasporto hanno il fondo appiattito: era una condizione imposta dalla tecnica dello stivaggio, praticata anticamente. In altri termini, si sistemava nella stiva uno strato di sabbia, sul quale si "piantavano" le anfore; tra le intercapedini tra il collo e l'ansa di quelle stivate servivano per reggere il secondo strato, poi il terzo, e via via gli altri, allo scopo di sfruttare tutto lo spazio disponibile. Il carico veniva completato col riempimento di tutti i vuoti esistenti tra anfora ed anfora, tra strato e strato, molto probabilmente con l'impiego di altra sabbia, al fine di ottenere un equilibrio e una stabilità perfetti. La sabbia, in altre parole, esercitava le funzioni che sarebbero state, in tempi più vicini a noi, esercitate dai trucioli e dai tacchi di legno dei moderni imballaggi. Le anfore ricolme venivano chiuse con un tappo di sughero o di legno, o anche di terracotta, ben aderente, munito nel centro di una sporgenza prensile ad ombelico. Per ottenere una chiusura ermetica, era sufficiente versare all'esterno del tappo, che penetrava molto al di sotto del collo dell'anfora, la pece fusa. Lo stivaggio risultava elastico, non sensibile al rollio né al beccheggio; le anfore viaggiavano senza urtarsi o rompersi, perché - con la sabbia - creavano un insieme assai compatto.
Il Majuri, a proposito delle anfore destinate ai trasporti marittimi, quelle del tipo "Rodi", cioè dell'isola che fu per circa tre secoli, ininterrottamente, centro di un'inesauribile produzione anforaria, e che rappresenta una delle manifestazioni più notevoli della vita industriale del periodo ellenico, ne descrive un tipo, costituito da un corpo piriforme rotondeggiante, a spalle appiattite, con collo alto, cilindrico, rinforzato da un bordo sottile, con anse a risvolto impostate perpendicolarmente, un poco oblique, con il piede a corto cilindretto pieno, che serviva di rinforzo e sostegno per l'appoggio sul terreno. Altezza., da 78 a 80 centimetri; circonferenza lungo la massima sezione, da metri 1,10 a metri 1,15.
Delle varie forme di anfore - o parti di esse - ritrovate e catalogate nei fondali del basso Adriatico e dello Jonio, il tino più comune è quello di "Scala di Furnu" (Scalo della Fornace). nell'area di Porto Cesareo, ove, in corrispondenza della fascia di Torre Chianca, sin nell'entroterra che nell'immediato tratto di mare, è stato possibile osservare un paleosuolo costituito da grandi cumuli di ceramica frammisti ad ammassi di scorie, ceneri, frammenti ignei di antiche cotture. I sondaggi effettuati autorizzano ad affermare che qui, per un lungo periodo di tempo, probabilmente durante i primi secoli a cavallo della età cristiana, la località fosse adibita alla fabbricazione di un unico tipo di anfora: piriforme anche questa, dall'aspetto un pò tozzo, con la base a corto cilindro a punta, incorporato, con manici corti, collo corto, spigoli vivi debordanti ad angolo acuto all'esterno. Altezza intorno a 61 centimetri, circonferenza di metri 1,20, circonferenza al collo centimetri 17, altezza del collo all'attacco centimetri 9. Che questo tipo di anfora, afferma Congedo, fosse fabbricato in loco, è confermato dalla presenza, nei pressi della litoranea Porto Cesareo - La Strea, a circa due chilometri dal nucleo abitato originario, di una "calcara": una massa scura, informe, che dal bagnasciuga si prolunga in acqua per una decina di metri, di roccia riarsa: evidentemente, una fornace destinata alla cottura delle anfore, una volta interamente sulla terraferma, e in seguito, per fenomeni di bradisismo, in buona parte sommersa dalle acque del mare.
Il versante del basso Adriatico, invece, non ha fornito un tipo anforario originale, ma solo prodotti anforari eterogenei, sparsi un pò dovunque, soprattutto in corrispondenza di "secche", giacenti sul fondo per naufragi. In compenso, questo mare ci ha offerto anche un numero molto alto di àncore, vasellame. reperti minori. Molto è stato salvato, molto di più è stato disperso. Si pensi alle àncore tratte a riva, e distrutte per ricavarvi il piombo! Tanto ha potuto l'avidità. A tanto è giunta la disinformazione. o se si vuole, l'ignoranza, l'una e l'altra deleterie quanto mai: bastano pochi dati, infatti, qualche reperto, anche ritrovamenti che a prima vista possono ritenersi di poco o nessun conto. per mettere gli studiosi in condizione di svelare un altro segreto, un aspetto sconosciuto e originale, della nostra storia e di quella del bacino mediterraneo, che per tre millenni fu l'"ombelico e il cuore del mondo".

 


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