Monumento preistorico
unico in Italia, testimonianza dei riti propiziatori della primavera
in terra calimerese, e del loro perfezionamento e adattamento al culto
cristiano.
L'usanza di propriziarsi
ai dèi si perde nella notte dei tempi. E la maggiore delle consuetudini
misteriche è sempre stata quella inerente alla fecondità,
com'è riscontrabile presso tutti i popoli, nei molteplici e frequenti
riti che venivano celebrati specialmente all'approssimarsi della primavera.
Per la nostra terra, è soprattutto nella Grecìa che queste
tradizioni proiettano, inalterato, il loro fascino. E i nove comuni
che compongono l'énclave grecanica, (Calimera, Castrignano dei
Greci, Corigliano d'Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Sternatia,
Soleto e Zollino), rivivono ogni anno credenze, riti, usanze immutate
da millenni.
Calimera, capitale della Grecia salentina, è il baricentro di
quest'isola culturale e linguistica, così originale nei costumi
e nelle memorie: qui, più che altrove, l'antico si fonde col
moderno, perché è il cuore stesso della gente che canta
la sua più bella canzone, mosso da suggestioni ancestrali: la
canzone della vita. Dicevo dei riti della primavera. Il più singolare,
magico-religioso, coincide con il risveglio della natura e si riallaccia
con il culto della Grande Madre, la Terra. La vicenda sprofonda nel
buio dei tempi, o meglio, da quel buio riemerge con precisa cadenza
annuale, per darci testimonianza di un passato proiettatosi oltre l'età
dell'atomo. Il rito, significativo della cultura folclorica locale,
è quello del "foro sacro dell'amore", collegato a un
monolite. Il foro è aperto trasversalmente sulla "Sacra
roccia forata", che la gente del luogo chiama "la pietra de
Santu Vitu".
Si tratta di un monolite, un grosso spezzone di roccia somigliante ad
una approssimata corona circolare (sulla cui parte superiore si notano
tracce d'affresco di scuola greca), che ha il diametro esterno di circa
un metro e quello interno di ventritre centimetri, disposto diagonalmente
e costellato di buchi. Ebbene, il nocciolo di tutta la consuetudine
è in questa strettissima apertura: la "Sacra roccia forata"
è un simbolo fallico, chiaramente vincolato ad una cerimonia
propiziatrice della fecondità. Questo monumento preistorico,
unico in Italia, insieme con i vicini dolmen e menhir, attesta le credenze
magico-religiose delle popolazioni di Calimera e della Grecìa
salentina, quali ci sono state tramandate fino ai nostri giorni.
Sebbene il foro sia molto stretto, chiunque - uomo o donna - deve attraversarlo
per ottenere i benefici divini. E, a memoria d'uomo, tutti hanno superato
la difficile prova, anche le persone più robuste o grasse. Anzi,
quando si verifica una di queste eccezionali imprese, una "prova
sacra" al limite dell'incredibile, si grida al miracolo. e si ribadisce
la convinzione che la fede è sufficiente ad allargare il varco,
rendendo elastica la venerabile roccia. E' nel preciso istante in cui
avviene il passaggio che si realizza il rito magico: il monolite trasferisce
le proprietà e qualità positive che lo caratterizzano:
resistenza e potenza. E così anche le donne, che almeno una volta
nella vita superano la prova, per sempre si assicurano la protezione
di San Vito, in concorrenza con Santa Liberata, invocata durante il
travaglio del parto che -grazie ad una particolare pratica magica -
diventa agevole, anzi gioioso.
Nei paesi non grecanici, ma vicini alla Grecia, la gestante usa la "petra
prena", che dapprima lega a un braccio per impedire l'aborto, e
successivamente ad un ginocchio, per partorire senza dolore; e ripete
spesso una "preghiera" caratteristica. Gli abitanti della
Grecia, invece, recitano - secondo la circostanza - il brano che più
interessa di questa preghiera, nel melodico, materno linguaggio greco-salentino:
I TRIPI VLOIMMENI
TIS AGAPI
(E paskarèdda 's ton A' Mbito)
PRAKALUME
Olo to króno
manekòssu,
àjon Bito, ti guadagno
sìmmeri 'kanni 'Su 'ttòssu
mes foné ce m'o rrebbàtto
pu kijunu ze pedìa?
Mòtti
a ti tripi emì skulufrùme,
leftì ói liparì, fotìa en ékome
jò lisari vloimmèno kammìa,
tosso 'pu kàu 's t'ammàddiasu torùme
ka ma 'Sena, puru senza lutria,
sikùri ìmesta ce gomài karà:
òle en ghinèkemma esù mas visà
ce mai ti fonàzzome in A' Llibberà!
Ajo 'gapimèno,
'Sena prakalùme
pànta 's ti zoì lisci 'nna diaùme!
IL SACRO FORO DELL'AMORE
(La pasquetta a San Vito)
PREGHIAMO
Solo soletto
tutto l'anno,
o San Vito, che guadagno
fai qui tu oggi
nel chiasso assordante
di tanti figli scalmanati?
Quando attraverso
il tuo foro scivoliamo,
sottili o grassoni, preoccupazione
non abbiamo per la sacra roccia alcuna,
tanto dal tuo sguardo vediamo
che di Te, pur senza offrirti una messa,
sicuri siamo e di ciò godiamo:
infatti tutte tu aiuti le donne nostre
e così mai invocheremo Santa Liberata!
Amato Santo,
sempre Te preghiamo
che nella vita vittoriosi riusciamo!
La "Sacra Roccia"
è situata al centro del pavimento di un tempietto cristiano dedicato
a San Vito, sulla vecchia via Calimera-Martano. Anzi a proposito di
questa sua dislocazione c'è una leggenda. Si dice che, originariamente,
il sacro simbolo fosse ubicato al centro dell'abitato di Calimera, e
che i cupidi Martanesi, volendolo trafugare, l'avessero caricato di
notte su un carro trainato da buoi. Per grazia divina, però,
strada facendo, la veneranda roccia era diventata tanto pesante da far
desistere dal sacrilego furto i malintenzionati, che l'abbandonarono
sul confine del feudo comunale, a circa due chilometri dal posto in
cui da sempre era situata. In quel punto sorse, poi, un tempio dedicato
a San Vito, che da immemorabile data è visitato dai calimeresi
e dagli abitanti della Grecìa salentina in un solo giorno dell'anno:
il lunedì della Pasquetta.
Le comitive, tradizionalmente formate da coetanei, festosamente si riversano
nella cappella. Ciascuno, subito dopo, si getta carponi, e strisciando
passa attraverso il "Sacro, foro dell'amore", dandosi da fare
per altri, successivi passaggi, tra la ressa e la frenesia generale.
Anche i timidi e gli scettici vengono travolti dalla suggestione collettiva.
E chi è riuscito a fare più di un "passaggio",
a gran voce ne vanta il numero: nel pigia-pigia si incrociano esclamazioni
di gioia, richiami giulivi. Tutti quanti, poi, vanno per i prati e nei
boschetti vicini, per i giochi tradizionali: sungi, piccallinu, nguzza
tri-ochì tri-ccà, kurùddu. E dopo ancora, nella
quiete della soleggiata giornata primaverile, viene consumata una parca
colazione, alla quale non devono mancare le "kuddùre",
(pani a forma di bambola, di galletto, di panierino, con incastonato
uno, o più uova, col guscio), e le frutta che sono state benedette
nella chiesa matrice, sollevate in alto nel momento in cui risorge il
Cristo, nel giorno di Pasqua.
Certamente, ora la gente non fa più conto del valore propiziatorio
del passaggio attraverso il sacro, foro. I calimeresi e gli altri abitanti
della Grecia ripetono il rito, così per gioco: e intanto, inconsapevolmente,
scandiscono il metro del tempo, e testimoniano una visione animistica
della vita, fiduciosa nelle misteriose risorse e disponibilità
della natura.
E san Vito? Benignamente dall'altare guarda l'allegra folla vociante,
che in quell'unico giorno dell'anno fa ressa nell'umida cappella. Il
Cristianesimo non ha mai distrutto riti e credenze locali, ma ha cercato
di adattarli, perfezionarli e assorbirli. Quando non è riuscito
in quest'opera, si èesso stesso adeguato alla cultura e alla
subcultura locale, evitando scontri frontali. E ciò spiega la
straordinaria simbiosi: un monumento preistorico nel cuore di un tempio
cristiano.
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