Lavanderie e
forni meccanici hanno ormai distrutto le antiche usanze del bucato e
dei pane casereccio, (quest'ultimo torna di moda, costosamente imitato,
come tanti altri beni del folclore affossati dal consumismo, e dallo
stesso consumismo rimessi in circolo dietro sofisticazione lucrosa).
Anche i proverbi che ne ricordano le fatiche vanno decadendo, anche
se resta viva la memoria del contesto socio-economico nel quale, spontaneamente
nati, si diffusero.
Due proverbi sembrano particolarmente rappresentativi della denuncia
e definizione, come al solito molto nette, di quelle condizioni di lavoro
disumananti, che aggrediscono i più sfruttati e nelle quali l'ingiustizia
sociale è più emergente. Non sono i soli, ma li separiamo
dagli altri come indici di situazioni-limite: della casalinga e del
bracciante non qualificato.
Ovviamente, le condizioni delle lavoratrici domestiche (serve oltre
che casalinghe) e dei lavoratori più generici e più poveri
sono tutt'altro che sporadiche o rare. Le casalinghe si trovano in un
rapporto di dipendenza diverso dal normale rapporto di compra-vendita
del lavoro, perché sta fuori, nella generalità dei casi,
dalle implicazioni classiste, in quanto si pone non come rapporto fra
individui di classe o collocazione sociale diversa, ma fra individui
della medesima classe, ed è uno dei canali per i quali lo spirito
di dominazione ed altri elementi della subcultura superiore, fra cui
molti proverbi, vengono accolti e fatti propri nella subcultura subalterna.
Nel bracciante non qualificato, poi, si assommano in misura eminente
i caratteri di, quella condizione di lavoro che produce solamente sofferenza
e si odia e si respinge nel concetto e nella pratica (quando non si
è domati dalla fame).
Il primo dei due proverbi afferma: cofanu e ppane fatica de cane (bucato
e pane fatiche da cane). Erano entrambe riservate alla donna, e ci piace
inserirne una breve descrizione, anche se può suonare alquanto
digressiva, per farci un' idea della "fatica da cane" e per
fissarne un ricordo.
Il bucato durava tre giorni, durante i quali le altre faccende domestiche
non è che si fermassero. Il primo giorno si lavava con sapone
(rrimuddare), si strizzava, si risciacquava e strizzava di nuovo la
gran massa della biancheria. Il secondo era fervido di occupazioni.
Si cominciava con l'accatastare i panni ancora bagnati, componendoli
per strati, secondo un preciso ordine (giù i colorati e i più
pesanti, più su via via i bianchi e più leggeri) entro
una grande apposita conca di creta non smaltata (còfanu), collocata
su una bassa panchetta. Il còfanu, di forma leggermente conica
e un pò panciuto, poteva misurare fino a un metro e più
di diametro e uno e mezzo d'altezza. Sporgeva in basso un beccuccio
cilindrico, forato (piscialire), chiuso da un tappo di sughero o legno
avvolto in uno straccio (uddaturu). Da esso, stappato al momento giusto,
l'acqua del bucato poteva colare (culata) in una vasca rotonda, anch'essa
di creta, ma con smaltato l'interno e con l'orlo modellato a dente verso
il fuori, per la presa (limmu), posta a terra sotto il beccuccio.
La conca veniva colmata di biancheria (rrobbe) fin oltre l'orlo; se
ne accresceva l'altezza inserendo verticalmente tutt'intorno, fra parete
e biancheria, apposite tavolette levigate d'abete (tauledde) lunghe
circa quaranta centimetri e larghe circa dieci. Sull'alto bordo circolare
così ottenuto si disponeva un telo grosso, la cui trama nelle
case più povere era formata di cotoni recuperati sfilacciando
calzette fuori uso, tessuto per questa destinazione specifica (culaturu,
cinneraturu), in modo che, ricadendo all'esterno per tutta la circonferenza,
formasse dentro un grande incavo o seno, che veniva riempito di pulita
cenere setacciata, a preferenza quella di sarmenti di vigna, ch'era
più bianca (cìnnere), con aggiunto qualche guscio d'uovo
e profumate bucce di limone e foglie d'alloro. Aggiustare il bucato
(cunzare còfanu) era un lavoro non solo gravoso, ma anche difficile.
Richiedeva esperienza ed arte, perché la pressatura dei panni
doveva essere dosata per modo che l'acqua vi filtrasse attraverso molto
lentamente, indugiandovi senza ristagnare, e non doveva colar fuori
dalle tavolette, neppure una goccia.
Sulla cenere ben disposta si versava una opportuna quantità di
acqua dal calderotto tenuto di fianco costantemente sul fuoco vivo.
Si adoperava una specie di grande boccale, anch'esso di creta (vacaturu).
Il versamento (vacata) dell'acqua avveniva poco prima che entrasse in
ebollizione, quando fa un caratteristico sfrigolio (canta, ruscia, rispiscia).
L'acqua sembrava stagnare sulla cenere, poi piano piano penetrava giù,
caricandosi della soda e potassa della cenere e anche un pò di
sali e acidi vari del guscio d'uovo, del limone, del lauro, e filtrava
attraverso la biancheria, a grado a grado detergendola fino alla purezza.
Dopo un certo tempo veniva sturato il beccuccio e l'acqua colava quietamente
giù nella vasca. Quest'operazione del versamento (vacata) si
ripeteva un numero di volte variabile a seconda della bisogna, ma mai
meno di dieci e sempre con la medesima acqua, riattinta dalla vasca
e rimessa a scaldare nel calderotto. Essa si andava sempre più
saturando di sostanze detergenti e diventava liscivia (lissìa).
Dopo la prima vacata, quando era meno ispessita, si usava toglierne
da parte un pò, che alle donne serviva per lavarsi i capelli.
Tutta l'altra, terminato il bucato, anche si conservava in anfore (quartare,
maròcculi) per lavaggi grossi di stracci e oggetti vari. Le vacate
riempivano molte ore. Se ne teneva il conto con varie ingegnosità
di sussidi: segnetti di carbone su un muro del focolare, foglie di ulivo
posate in qualche angolo, stecchi piantati nella cenere del còfanu.
Il fuoco veniva alimentato senza interruzione con rami e frasche d'ulivo,
la sorveglianza era anche senza interruzione nell'ambiente accaldato.
Il bucato si disfaceva (scunzava) quando si era ben raffreddato: la
sera tardi o più spesso il mattino seguente. I panni venivano
lavati di nuovo con sapone, risciacquati in acqua chiara, strizzati
a dovere, appesi ad asciugare, e finalmente ripiegati e messi via con
steli di lavanda e spighe di nardo frammezzo. Le massaie ponevano notevole
orgoglio nel bucato ben fatto, un orgoglio di civiltà, ma le
serve o le donne a giornata non avevano neppure questa soddisfazione,
diciamo morale: per loro era una fatica spossante, spesso retribuita
solo con magri donativi in natura, e null'altro.
Fare il pane in casa (fare pane) era non meno pesante e difficile. Lo
facevano tutte le famiglie non miserabili, in quantità tale,
ogni volta, che bastasse per otto, dieci ed anche più giorni.
Se muffiva, si mangiava lo stesso (ai bambini si diceva per invogliarli
che faceva venire i denti d'oro). La prima operazione era di setacciare
la farina (cèrnere), orzo o grano che fosse, riportata integrale
dal mulino. Si usavano setacci di varia grossezza (filu), e ciascuno
aveva il suo nome: farnaru, simmularu, marcaturu, sitazzu. Si separava
per prima cosa la farina dalla crusca (canija se di grano, càntara
se di orzo); poi la parte finissima e meno idonea alla panificazione
(pòlana, fiore) veniva divisa dall'altra (sìmmula, crusseddu),
più idonea, passandola al setaccio fino a sette volte.
Avendo preparato e fatto "crescere" (crisciutu) il lievito
(Ilavatu, Ilavatina) fin dal pomeriggio precedente entro una coppa o
scodella con acqua e farina, tenuta nel tepore con panni durante la
notte, ci si levava al buio per versarlo nella farina della madia (mattra),
intridendola d'acqua con sale (temperare) ed impastandola (mpastare).
Poi si lavorava a mano, energicamente a lungo, la pasta (scanare), scannellandola
e scannellandola con la base delle palme sul tavolo di cucina o sul
coperchio della madia (mattrabbanca), fino a renderla setosa ed elastica.
Si confezionavano i grandi pani rotondi o acciambellati (piezzi), le
pagnotte appaiate (minedde), le ciambellette da spaccare dopo una prima
cottura, servendosi di uno spago a cappio e da biscottare (le famoso
frisedde), i pani di varia forma e grandezza, conditi con olive (uliate),
olio, zucca, cipolla, peperoncino, pomodori (pizziònguli); talora
le ciambelline sottili all'olio con pepe o semi di finocchio, che si
bollivano in acqua prima d'infornarle (cudduricchi, taralli), ed altri
"sciali" di siffatta portata.
Il pane, finito di lavorare, veniva disposto sul letto di bucato, sotto
tovaglie di cotone e coperte di lana, affinché si gonfiasse al
caldo, lievitando. Sempre così protetto, lo si mandava al forno,
quando, con la lunga tavola in bilico sull'omero, veniva a prelevarlo
all'ora giusta il garzone della fornaia, che già prima aveva
ella stessa mandato ad avvertire, sulla regola del calore del forno,
il momento di impastare. I forni erano di pietra leccese pavimentati
di chianche, ed il pane doveva entrarvi quando temperatura e lievitazione
giungevano al punto opportuno. Vi si bruciavano dentro, per arroventarli,
rami e frasche d'ulivo legati a fascina (sàrcine). In paese funzionavano
per conto terzi, come si sarà capito; nelle campagne ogni masseria
aveva il sUO.
Era tutto lavoro e ansia femminile (bastava un nonnulla perché
il pane - come del resto il bucato - venisse male), peso delle mogli,
e delle donne a giornata e serve in alcune case ricche, benché
fare il pane fosse anche una festa in famiglia, specie dei bambini,
e segno di non totale indigenza, quasi "status symbol" di
cui la padrona di casa non mancava di andar compiaciuta.
Chiudiamo la digressione. Lavanderie e forni meccanici hanno oramai
distrutto le antiche usanze del bucato e del pane casereccio, (il pane
casereccio ritorna di moda per gli abbienti, costosamente imitato, come
tanti altri beni del folklore affossati dal consumismo e dallo stesso
consumismo rimessi in circolo dietro sofisticazione lucrosa). Anche
il proverbio che ne ricorda la fatica va decadendo. Resta viva però
la seconda clausola, "fatica da cane", in origine probabilmente
attratta per rima, e continua ad avere corso per significare ogni lavoro
pesantissimo e bestiale.
Il secondo proverbio che avevamo annunziato dice: ddo cose nu sse cùrane:
mappina e fforza de pòveru (due cose non si curano: straccio
e forza di povero). Straccio, propriamente, non rende mappina, che non
è qualsiasi straccio, bensì quello che si usa in cucina
per levare dagli apparecchi e dai mobili (non dalle posate, stoviglie
e pentole) lo sporco e l'unto più grossi. Vale perciò
traslatamente quanto oggetto consunto, sudicio, di infimo valore. Ora,
la vigoria di questo proverbio, che ha forma desolata di constatazione
e non di esortazione o massima (come piacerebbe al De Carlo), non sta
tanto nell'enunciato assai triste, quanto nell'accostamento, anzi assimilazione,
di mappina e forza de pòveru. Questa assimilazione rivela che
della forza del povero il conto che si fa è meno che nulla. E
bisogna badare che forza è qualcosa di più radicale e
profondo che fatica: è il prezzo che la fatica costa in termini
di salute e integrità fisica, mai dal padrone sperimentato in
prima persona. Sta in ciò l'amaro significato di questo proverbio.
E si capisce che il povero di cui parla è il bracciante, quello,
si vorrebbe dire, allo stato puro, che altro non ha da spendere che
la forza del muscoli, e che per ciò stesso si sente valutare
socialmente come se ad essa si riducesse tutta la sua spregiata umanità
di straccio consunto.
Dei proverbio vi è una variante ampliata, che ne allarga la portata
ad altre categorie di sfruttati e precisa il riferimento al lavoro agricolo.
Il lavoratore agricolo viene affiancato al pezzente e alla puttana,
e con questi livellato nella sorte di non vedersi apprezzare quanto
può avere di positivo, e nella emarginazione: scienza de pizzenti,
bbellezza de bbuttane e forza de villanu num bàlune nu turnese
(scienza di pezzenti, bellezza di puttane e forza di villano non valgono
un centesimo), cioè sono beni che chiunque può mettersi
sotto i piedi, che chiunque può prendere per uso e comodo quando
gli conviene e al prezzo che gli conviene.
Tuttora notissimo, questo aforisma mette in luce tagliente le condizioni
e forme disumane cui era costretto il lavoro dei poveri e le mentalità
che lo sovrastavano. Vi è ancora costretto, in casi meno infrequenti
di quanto ufficialmente si mostri di credere, il lavoro più debole,
delle donne dei minori, dei fanciulli: cottimi a domicilio, nei bar,
nelle botteghe, nelle cave di pietra leccese, nelle campagne. Questo
lavoro la cultura subalterna insieme condanna e fatalisticamente subisce
nel senso che vi si adatta per necessità di sopravvivenza.
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