§ Dalla cultura superiore alla cultura subalterna

Il lavoro nei proverbi salentini




Nicola G. De Donno



Lavanderie e forni meccanici hanno ormai distrutto le antiche usanze del bucato e dei pane casereccio, (quest'ultimo torna di moda, costosamente imitato, come tanti altri beni del folclore affossati dal consumismo, e dallo stesso consumismo rimessi in circolo dietro sofisticazione lucrosa). Anche i proverbi che ne ricordano le fatiche vanno decadendo, anche se resta viva la memoria del contesto socio-economico nel quale, spontaneamente nati, si diffusero.


Due proverbi sembrano particolarmente rappresentativi della denuncia e definizione, come al solito molto nette, di quelle condizioni di lavoro disumananti, che aggrediscono i più sfruttati e nelle quali l'ingiustizia sociale è più emergente. Non sono i soli, ma li separiamo dagli altri come indici di situazioni-limite: della casalinga e del bracciante non qualificato.
Ovviamente, le condizioni delle lavoratrici domestiche (serve oltre che casalinghe) e dei lavoratori più generici e più poveri sono tutt'altro che sporadiche o rare. Le casalinghe si trovano in un rapporto di dipendenza diverso dal normale rapporto di compra-vendita del lavoro, perché sta fuori, nella generalità dei casi, dalle implicazioni classiste, in quanto si pone non come rapporto fra individui di classe o collocazione sociale diversa, ma fra individui della medesima classe, ed è uno dei canali per i quali lo spirito di dominazione ed altri elementi della subcultura superiore, fra cui molti proverbi, vengono accolti e fatti propri nella subcultura subalterna. Nel bracciante non qualificato, poi, si assommano in misura eminente i caratteri di, quella condizione di lavoro che produce solamente sofferenza e si odia e si respinge nel concetto e nella pratica (quando non si è domati dalla fame).
Il primo dei due proverbi afferma: cofanu e ppane fatica de cane (bucato e pane fatiche da cane). Erano entrambe riservate alla donna, e ci piace inserirne una breve descrizione, anche se può suonare alquanto digressiva, per farci un' idea della "fatica da cane" e per fissarne un ricordo.
Il bucato durava tre giorni, durante i quali le altre faccende domestiche non è che si fermassero. Il primo giorno si lavava con sapone (rrimuddare), si strizzava, si risciacquava e strizzava di nuovo la gran massa della biancheria. Il secondo era fervido di occupazioni. Si cominciava con l'accatastare i panni ancora bagnati, componendoli per strati, secondo un preciso ordine (giù i colorati e i più pesanti, più su via via i bianchi e più leggeri) entro una grande apposita conca di creta non smaltata (còfanu), collocata su una bassa panchetta. Il còfanu, di forma leggermente conica e un pò panciuto, poteva misurare fino a un metro e più di diametro e uno e mezzo d'altezza. Sporgeva in basso un beccuccio cilindrico, forato (piscialire), chiuso da un tappo di sughero o legno avvolto in uno straccio (uddaturu). Da esso, stappato al momento giusto, l'acqua del bucato poteva colare (culata) in una vasca rotonda, anch'essa di creta, ma con smaltato l'interno e con l'orlo modellato a dente verso il fuori, per la presa (limmu), posta a terra sotto il beccuccio.
La conca veniva colmata di biancheria (rrobbe) fin oltre l'orlo; se ne accresceva l'altezza inserendo verticalmente tutt'intorno, fra parete e biancheria, apposite tavolette levigate d'abete (tauledde) lunghe circa quaranta centimetri e larghe circa dieci. Sull'alto bordo circolare così ottenuto si disponeva un telo grosso, la cui trama nelle case più povere era formata di cotoni recuperati sfilacciando calzette fuori uso, tessuto per questa destinazione specifica (culaturu, cinneraturu), in modo che, ricadendo all'esterno per tutta la circonferenza, formasse dentro un grande incavo o seno, che veniva riempito di pulita cenere setacciata, a preferenza quella di sarmenti di vigna, ch'era più bianca (cìnnere), con aggiunto qualche guscio d'uovo e profumate bucce di limone e foglie d'alloro. Aggiustare il bucato (cunzare còfanu) era un lavoro non solo gravoso, ma anche difficile. Richiedeva esperienza ed arte, perché la pressatura dei panni doveva essere dosata per modo che l'acqua vi filtrasse attraverso molto lentamente, indugiandovi senza ristagnare, e non doveva colar fuori dalle tavolette, neppure una goccia.
Sulla cenere ben disposta si versava una opportuna quantità di acqua dal calderotto tenuto di fianco costantemente sul fuoco vivo. Si adoperava una specie di grande boccale, anch'esso di creta (vacaturu). Il versamento (vacata) dell'acqua avveniva poco prima che entrasse in ebollizione, quando fa un caratteristico sfrigolio (canta, ruscia, rispiscia). L'acqua sembrava stagnare sulla cenere, poi piano piano penetrava giù, caricandosi della soda e potassa della cenere e anche un pò di sali e acidi vari del guscio d'uovo, del limone, del lauro, e filtrava attraverso la biancheria, a grado a grado detergendola fino alla purezza. Dopo un certo tempo veniva sturato il beccuccio e l'acqua colava quietamente giù nella vasca. Quest'operazione del versamento (vacata) si ripeteva un numero di volte variabile a seconda della bisogna, ma mai meno di dieci e sempre con la medesima acqua, riattinta dalla vasca e rimessa a scaldare nel calderotto. Essa si andava sempre più saturando di sostanze detergenti e diventava liscivia (lissìa). Dopo la prima vacata, quando era meno ispessita, si usava toglierne da parte un pò, che alle donne serviva per lavarsi i capelli. Tutta l'altra, terminato il bucato, anche si conservava in anfore (quartare, maròcculi) per lavaggi grossi di stracci e oggetti vari. Le vacate riempivano molte ore. Se ne teneva il conto con varie ingegnosità di sussidi: segnetti di carbone su un muro del focolare, foglie di ulivo posate in qualche angolo, stecchi piantati nella cenere del còfanu. Il fuoco veniva alimentato senza interruzione con rami e frasche d'ulivo, la sorveglianza era anche senza interruzione nell'ambiente accaldato.
Il bucato si disfaceva (scunzava) quando si era ben raffreddato: la sera tardi o più spesso il mattino seguente. I panni venivano lavati di nuovo con sapone, risciacquati in acqua chiara, strizzati a dovere, appesi ad asciugare, e finalmente ripiegati e messi via con steli di lavanda e spighe di nardo frammezzo. Le massaie ponevano notevole orgoglio nel bucato ben fatto, un orgoglio di civiltà, ma le serve o le donne a giornata non avevano neppure questa soddisfazione, diciamo morale: per loro era una fatica spossante, spesso retribuita solo con magri donativi in natura, e null'altro.
Fare il pane in casa (fare pane) era non meno pesante e difficile. Lo facevano tutte le famiglie non miserabili, in quantità tale, ogni volta, che bastasse per otto, dieci ed anche più giorni. Se muffiva, si mangiava lo stesso (ai bambini si diceva per invogliarli che faceva venire i denti d'oro). La prima operazione era di setacciare la farina (cèrnere), orzo o grano che fosse, riportata integrale dal mulino. Si usavano setacci di varia grossezza (filu), e ciascuno aveva il suo nome: farnaru, simmularu, marcaturu, sitazzu. Si separava per prima cosa la farina dalla crusca (canija se di grano, càntara se di orzo); poi la parte finissima e meno idonea alla panificazione (pòlana, fiore) veniva divisa dall'altra (sìmmula, crusseddu), più idonea, passandola al setaccio fino a sette volte.
Avendo preparato e fatto "crescere" (crisciutu) il lievito (Ilavatu, Ilavatina) fin dal pomeriggio precedente entro una coppa o scodella con acqua e farina, tenuta nel tepore con panni durante la notte, ci si levava al buio per versarlo nella farina della madia (mattra), intridendola d'acqua con sale (temperare) ed impastandola (mpastare). Poi si lavorava a mano, energicamente a lungo, la pasta (scanare), scannellandola e scannellandola con la base delle palme sul tavolo di cucina o sul coperchio della madia (mattrabbanca), fino a renderla setosa ed elastica. Si confezionavano i grandi pani rotondi o acciambellati (piezzi), le pagnotte appaiate (minedde), le ciambellette da spaccare dopo una prima cottura, servendosi di uno spago a cappio e da biscottare (le famoso frisedde), i pani di varia forma e grandezza, conditi con olive (uliate), olio, zucca, cipolla, peperoncino, pomodori (pizziònguli); talora le ciambelline sottili all'olio con pepe o semi di finocchio, che si bollivano in acqua prima d'infornarle (cudduricchi, taralli), ed altri "sciali" di siffatta portata.
Il pane, finito di lavorare, veniva disposto sul letto di bucato, sotto tovaglie di cotone e coperte di lana, affinché si gonfiasse al caldo, lievitando. Sempre così protetto, lo si mandava al forno, quando, con la lunga tavola in bilico sull'omero, veniva a prelevarlo all'ora giusta il garzone della fornaia, che già prima aveva ella stessa mandato ad avvertire, sulla regola del calore del forno, il momento di impastare. I forni erano di pietra leccese pavimentati di chianche, ed il pane doveva entrarvi quando temperatura e lievitazione giungevano al punto opportuno. Vi si bruciavano dentro, per arroventarli, rami e frasche d'ulivo legati a fascina (sàrcine). In paese funzionavano per conto terzi, come si sarà capito; nelle campagne ogni masseria aveva il sUO.
Era tutto lavoro e ansia femminile (bastava un nonnulla perché il pane - come del resto il bucato - venisse male), peso delle mogli, e delle donne a giornata e serve in alcune case ricche, benché fare il pane fosse anche una festa in famiglia, specie dei bambini, e segno di non totale indigenza, quasi "status symbol" di cui la padrona di casa non mancava di andar compiaciuta.
Chiudiamo la digressione. Lavanderie e forni meccanici hanno oramai distrutto le antiche usanze del bucato e del pane casereccio, (il pane casereccio ritorna di moda per gli abbienti, costosamente imitato, come tanti altri beni del folklore affossati dal consumismo e dallo stesso consumismo rimessi in circolo dietro sofisticazione lucrosa). Anche il proverbio che ne ricorda la fatica va decadendo. Resta viva però la seconda clausola, "fatica da cane", in origine probabilmente attratta per rima, e continua ad avere corso per significare ogni lavoro pesantissimo e bestiale.
Il secondo proverbio che avevamo annunziato dice: ddo cose nu sse cùrane: mappina e fforza de pòveru (due cose non si curano: straccio e forza di povero). Straccio, propriamente, non rende mappina, che non è qualsiasi straccio, bensì quello che si usa in cucina per levare dagli apparecchi e dai mobili (non dalle posate, stoviglie e pentole) lo sporco e l'unto più grossi. Vale perciò traslatamente quanto oggetto consunto, sudicio, di infimo valore. Ora, la vigoria di questo proverbio, che ha forma desolata di constatazione e non di esortazione o massima (come piacerebbe al De Carlo), non sta tanto nell'enunciato assai triste, quanto nell'accostamento, anzi assimilazione, di mappina e forza de pòveru. Questa assimilazione rivela che della forza del povero il conto che si fa è meno che nulla. E bisogna badare che forza è qualcosa di più radicale e profondo che fatica: è il prezzo che la fatica costa in termini di salute e integrità fisica, mai dal padrone sperimentato in prima persona. Sta in ciò l'amaro significato di questo proverbio. E si capisce che il povero di cui parla è il bracciante, quello, si vorrebbe dire, allo stato puro, che altro non ha da spendere che la forza del muscoli, e che per ciò stesso si sente valutare socialmente come se ad essa si riducesse tutta la sua spregiata umanità di straccio consunto.
Dei proverbio vi è una variante ampliata, che ne allarga la portata ad altre categorie di sfruttati e precisa il riferimento al lavoro agricolo. Il lavoratore agricolo viene affiancato al pezzente e alla puttana, e con questi livellato nella sorte di non vedersi apprezzare quanto può avere di positivo, e nella emarginazione: scienza de pizzenti, bbellezza de bbuttane e forza de villanu num bàlune nu turnese (scienza di pezzenti, bellezza di puttane e forza di villano non valgono un centesimo), cioè sono beni che chiunque può mettersi sotto i piedi, che chiunque può prendere per uso e comodo quando gli conviene e al prezzo che gli conviene.
Tuttora notissimo, questo aforisma mette in luce tagliente le condizioni e forme disumane cui era costretto il lavoro dei poveri e le mentalità che lo sovrastavano. Vi è ancora costretto, in casi meno infrequenti di quanto ufficialmente si mostri di credere, il lavoro più debole, delle donne dei minori, dei fanciulli: cottimi a domicilio, nei bar, nelle botteghe, nelle cave di pietra leccese, nelle campagne. Questo lavoro la cultura subalterna insieme condanna e fatalisticamente subisce nel senso che vi si adatta per necessità di sopravvivenza.


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