L'idra della riconversione




Giorgio Ruffolo



C'è un momento delicato nella vita travagliata dei governi della Repubblica: ed è il passaggio dalla fase uno, che consiste di solito in una gragnuola di provvedimenti fiscali, monetari e valutari di emergenza, assunti sotto l'assillo della patria in pericolo, alla fase due, delle politiche strutturali. E' un passo molto difficile da varcare: di solito, a questo punto, anche se partita con le migliori intenzioni, l'azione dei governi si offusca e si invischia L'oggettiva malignità delle cose fa si che da tale processo di rapido intorpidimento i governi possano essere salvati solo "grazie" ad improvvise ricadute dell'economia del paese nella fase uno, per effetto di nuove impreviste emergenze.
In tali disgraziati frangenti, infatti, il governo dispone almeno di un consenso rassegnato, dettato dallo stato di necessità; mentre non sembra capace di raccogliere. sulla base di un programma di insieme, la forza di un consenso attivo, necessaria ad intraprendere politiche riformatrici di ampio respiro.
L'appuntamento con la fase due, per il governo attuale, è rappresentato dalla necessità di affrontare il formidabile problema della riconversione e dello sviluppo industriale italiano. L'occasione è formata da due impegni in agenda: quello relativo al disegno di legge sulla riconversione e ristrutturazione; e quello relativo all'attuazione della nuova recente legge sull'intervento straordinario nel Mezzogiorno. Il rischio di mancare anche a questo appuntamento con la fase due è elevato: sia per la grave situazione in cui si trova l'economia italiana, sia - mi pare -, per l'insufficienza del disegno programmatico da cui muove l'azione governativa.
Anzitutto, credo che sarebbe necessario un chiarimento concettuale sui termini del problema; il quale, si può dire schematizzando, presenta due dimensioni, una strutturale e una territoriale.
La dimensione strutturale riguarda la progressiva perdita di competitività dell'industria italiana; la sua incapacità di soddisfare bisogni fondamentali per il paese, per i quali occorre far ricorso ad importazioni; la sua inadeguatezza rispetto alle esigenze di occupazione. Essa comporta tre ordini di misure concepibili: la cessazione, per ristrutturazione o per conversione (1), di attività imprenditoriali; l'avvio di nuove imprese; l'ampliamento di imprese esistenti. Nel primo e nel secondo caso si presentano problemi di collocamento e di riqualificazione della manodopera. Nel secondo, oltre a questi, anche problemi di sostegno pubblico al processo di ristrutturazione e riconversione. Nel terzo, solo problemi di sostegno pubblico alle nuove iniziative. Naturalmente, il primo e il terzo caso possono essere collegati, nel senso che alla chiusura di attività corrisponde l'apertura di nuove; ma, ai fini della scelta degli strumenti di intervento pubblico, le due operazioni devono essere tenute distinte: il che consente di non confondere le cose, contrattando come "riconversioni" operazioni di puro e semplice sussidio di imprese in difficoltà; e di impostare in termini corretti il problema nella sua dimensione territoriale.
Quanto a questa, si tratta - com'è noto - di assicurare, contemporaneamente all'ammodernamento strutturale dell'industria italiana, la dislocazione del suo baricentro verso il Mezzogiorno. Come più volte è stato chiarito, tale dislocazione risponde sia alla necessità di equilibrare domanda e offerta di lavoro globale nelle due aree, minimizzando i costi sociali dell'immigrazione, sia a quella di una più equilibrata ripartizione tra le attività economiche all'interno di ciascuna delle due zone. Nel Nord, infatti, la quota della forza di lavoro occupata nell'industria è al livello dei paesi più industrializzati, mentre quella impegnata nei servizi: è molto più bassa, nel Sud si verifica il contrario: la prima è molto bassa, la seconda - che dissimula ampie zone di sottoccupazione - è elevata: un aumento generale della produttività economica nazionale comporta dunque una "terziarizzazione" del Nord e una "industrializzazione" del Mezzogiorno.
Se si accettano questi assunti e queste premesse, politica industriale dovrebbe proporsi due fondamentali obiettivi. Il primo è la riorganizzazione dell'apparato produttivo esistente, concentrato prevalentemente nel Nord, attraverso la cessazione di attività irrecuperabili, la ristrutturazione di attività recuperabili, e, soprattutto, il ristabilimento di condizioni generali di economicità per l'attività industriale. Il secondo è lo sviluppo e la differenziazione del sistema industriale italiano, da realizzarsi con assoluta prevalenza nelle regioni del Mezzogiorno.
La riorganizzazione dell'apparato industriale comporta anzitutto l'adozione di politiche di carattere generale, volte a ristabilire condizioni di economicità dell'attività industriale. Da questo punto di vista, tre sembrano i problemi emergenti: la sottocapitalizzazione, l'eccessivo gravame degli oneri sociali, l'inadeguata mobilità della forza di lavoro.
Non sembra opportuno affrontare il primo problema attraverso operazioni immediate e generalizzate di trasformazione dell'indebitamento delle imprese in partecipazione azionaria delle banche: che si limiterebbe a porre in evidenza drammatica l'attuale situazione, senza risolverla. Sembra più opportuno procedere a misure di ingegneria finanziaria più modeste (attraverso, ad esempio, il consolidamento graduale di una parte dell'indebitamento a breve in obbligazioni sottoscritte dalle banche e munito della garanzia sussidiaria dello Stato), e meno indiscriminate (quanta parte delle imprese italiane è veramente coinvolta da questo problema?). In definitiva, poi, nessuna operazione di igiene o di "maquillage" finanziario può avere successo, se non si ristabiliscono condizioni generali di redditività delle imprese. E se tali condizioni si ristabiliscono, e nel contempo si adottano misure efficaci di rilancio del risparmio azionario, il problema del riequilibramento della struttura finanziaria delle imprese può essere sdrammatizzato. Il problema della sottocapitalizzazione e dell'eccessivo indebitamento dell'industria italiana va dunque affrontato, in linea generale, con misure concrete di incentivazione del risparmio azionario, da lungo tempo auspicate e mai realizzate, a causa del "combinato disposto" della demagogia di una certa sinistra e dell'interessata pigrizia dei grandi gruppi industriali, per i quali il credito agevolato rappresenta una più facile via di perdizione. In linea specifica, ove realmente necessario, il problema dovrebbe essere affrontato con operazioni di consolidamento opportunamente assistite e garantite dallo Stato.
Il secondo problema richiede una graduale fiscalizzazione degli oneri sociali gravanti sull'industria italiana, che la allinei alle condizioni medie delle industrie europee più direttamente concorrenti. Anche da questo punto di vista, esistono schemi e proposte, (per esempio, quello di un trasferimento dell'onere fiscale sull'Iva, rimborsabile all'esportazione: misura certo "interessata" e discutibile, ma mai seriamente discussa).
Il terzo, e certamente il più importante problema di carattere generale, riguarda la ricostituzione di ragionevoli condizioni di mobilità di lavoro. Vi sono, mi sembra, tre modi per non risolvere questo problema: il primo e più ovvio è quello di sussidiare semplicemente le imprese esistenti, facendo finta di "ristrutturarle", attraverso varie provvidenze governative; il secondo è quello di sussidiare a tempo indeterminato, attraverso il prolungamento sine die della Cassa Integrazione, i lavoratori disoccupati per effetto di processi di ristrutturazione reali, con la conseguente creazione di un'"armata di riserva" ufficiale e istituzionale; il terzo è quello di creare sul posto, o nella zona, nuove iniziative industriali agevolate, al fine di occupare nuovamente i lavoratori disoccupati, con la conseguenza di violare vistosamente l'obiettivo territoriale della politica industriale, creando, anzi confermando e rafforzando - poiché, purtroppo, già esiste - un doppio sistema di incentivazioni concorrenti, al Sud e al Nord, (dove quelle del Nord risultano sempre vittoriose). Se le considerazioni fatte prima, sulla struttura dell'occupazione e della domanda di lavoro nelle due aree, sono corrette, il problema della disoccupazione da ristrutturazione industriale, nelle aree del Nord, non si presenta, (come è stato giustamente osservato), "nella forma di una complessiva carenza di occasioni di lavoro rispetto all'offerta locale, quanto piuttosto nella forma di una serie di squilibri locali tra offerta e domanda, e tra diverse professioni e qualificazioni che si verificano all'interno di questo quadro".
E dunque, il problema della mobilità della manodopera, al Nord come al Sud, si identifica con i due aspetti fondamentali di una politica attiva del lavoro: quello del collocamento, e quello della formazione, qualificazione e riqualificazione professionale. La creazione di forti strutture, finanziate dallo Stato e dall'industria, con la partecipazione mista imprenditoriale e sindacale, regionalizzate ma collegate in un sistema nazionale, capace di orientare i processi di riconversione della forza di lavoro secondo le linee della politica industriale generale, è la risposta efficace alla questione della mobilità di lavoro. Nelle regioni del Nord tali strutture dovrebbero orientare la formazione, il collocamento e la riqualificazione delle forze di lavoro prevalentemente verso i servizi industriali, (trasporti, commercializzazione, progettazione, informatica ecc.) agevolando il processo di terziarizzazione; nel Mezzogiorno, verso i settori industriali prioritari dello sviluppo.
La riorganizzazione dell'apparato produttivo esistente è dunque soprattutto un problema di politiche di riequilibramento delle condizioni dell'attività industriale, e non di sussidi generalizzati delle gestioni. Tuttavia, è certo che, in casi specifici, si pongono problemi urgenti di risanamento e di ristrutturazione che esigono un intervento specifico. E' allora opportuno che tali situazioni siano identificate per genere, numero e caso e non coperte dalla generica coltre di un sistema di agevolazioni finanziarie aperto praticamente a tutti; anche perché i problemi di ristrutturazione sono diversi nei diversi casi, e non ha senso curare ogni malanno con la facile aspirina del credito agevolato. Si possono intanto distinguere due ordini di casi: quelli di programmi di ristrutturazione
puntuali, relativi a piccole e medie imprese, che hanno bisogno di urgenti interventi di ricapitalizzazione, oltre che di alleggerimento del carico di manodopera, per ricuperare condizioni di equilibrio economico. In tali casi, più che concedere agevolazioni creditizie, sarebbe opportuno prevedere una partecipazione pubblica temporanea al capitale (della Gepi, ad esempio) che consentisse all'impresa di equilibrare la situazione finanziaria e che garantisse, con la presenza dell'operatore pubblico, in posizione di controllo, e non di gestione, la realizzazione del programma di ristrutturazione. Un secondo ordine di casi concerne operazioni di ristrutturazione e di riconversione più complesse, riguardanti grandi gruppi, o insiemi di piccole e medie imprese, in certe zone o in certi settori. Mentre i casi del primo tipo possono essere prefigurati e disciplinati da una normativa generale, questi altri devono essere individuati volta per volta in programmi ad hoc, per i quali sarebbe necessario precisare ogni volta gli obiettivi specifici. Li si potrebbe definire programmi finalizzati; ed è naturale prevedere, dato l'ampio margine di discrezionalità che essi comporterebbero per l'azione pubblica, che siano sottoposti all'approvazione e al controllo del Parlamento.
Il secondo obiettivo fondamentale della politica industriale è, o almeno dovrebbe essere, quello dello sviluppo e della differenziazione dell'apparato industriale, da realizzare soprattutto nel Mezzogiorno. Quel "soprattutto" ha bisogno di essere precisato in termini rigorosi, onde evitare equivoci. Non significa riservare la maggior parte delle incentivazioni finanziarie previste al Mezzogiorno, secondo il metodo funesto e ipocrita della "riserva", purtroppo confermato dalla recente legge 183. Significa riservare tutte le incentivazioni finanziarie al Mezzogiorno, lasciando ovviamente che lo sviluppo delle attività nel Nord segua la logica delle convenienze normali di mercato (tranne i casi di disincentivazione, già previsti dalla legge 853, e mai seriamente applicati). Non mi nascondo che ciò comporterebbe una revisione delle norme della 183, che prevedono una casistica di ripartizione "zonale" degli incentivi amministrati dal nuovo Fondo, in tutto il territorio nazionale, a mio parere gravemente pregiudizievole, (già di per sé, e senza il "carico da undici" delle provvidenze dell'altro Fondo di riconversione, che si profila all'orizzonte), per la politica di industrializzazione del Mezzogiorno.
La politica di industrializzazione del Sud comporta anch'essa strumenti vari e articolati: non è riducibile al solo strumento dell'incentivazione finanziaria. E' certo il primo strumento invisibile, e forse il più efficace, il ristabilimento di condizioni di economicità per l'intera industria italiana, di cui si è detto. Il secondo strumento "negativo" è l'eliminazione di strumenti di incentivazione di nuove iniziative industriali al Nord, che contraddicano e frustrino lo sforzo di industrializzazione del Mezzogiorno. Viene poi la gamma degli strumenti specifici e positivi. Al primo posto, certamente, gli incentivi. A proposito di questi, va detto che il problema fondamentale sta nel grado di informazione, che è ancora scarso in Italia e all'estero, e nella rapidità, fluidità e non inceppamento patologico della loro erogazione. E' inutile e dannoso allargare la gamma e potenziare la portata degli incentivi finanziari, quando poi, nella pratica, il loro ottenimento comporti, per l'imprenditore, un percorso talmente lungo e accidentato, da scoraggiarlo a intraprenderlo, o, una volta intrapreso, a proseguirlo fino in fondo.
Gli incentivi non rappresentano che una parte di una politica di industrializzazione moderna. Una parte meno vistosa, ma forse più penetrante, è rappresentata da quelle forme di promozione diretta dell'attività imprenditoriale che vanno gradatamente emergendo nel Sud, ma che sarebbe quanto mai necessario integrare, rafforzare, coordinare. Intendo le forme di assistenza, di formazione dei quadri, di promozione attraverso la partecipazione al capitale, per le quali già esistono strutture e istituti, e quelle altre iniziative che, attraverso l'estensione e il rafforzamento del sistema già esistente, dovrebbero essere incoraggiate. Tre aspetti mi sembrano particolarmente importanti, al riguardo: quello della commercializzazione; quello della ricerca; quello della progettazione e realizzazione diretta di impianti industriali, da concedersi in condizioni di affitto-riscatto.
Quanto al primo: sembra incontestabile che facilitare alle piccole e medie imprese l'accesso ai mercati sia più importante che agevolarle finanziariamente, e rappresenti il più sano incentivo all'imprenditorialità che l'azione pubblica possa predisporre. A tal fine, essa dovrebbe articolarsi in due direzioni principali: l'organizzazione della commercializzazione sui mercati esteri, attraverso la creazione di "trading companies" sostenute dai grandi gruppi industriali e da consorzi finanziari di piccole e medie imprese; e l'organizzazione di "mercati pubblici", attraverso il coordinamento delle attività operative delle amministrazioni e delle imprese pubbliche.
Un timido approccio al secondo punto (sviluppo della ricerca) è stato già sperimentato con la costituzione del Fondo Imi. La legge 183 prevede inoltre un potente incentivo alla localizzazione di strutture di ricerca nel Sud. Ma uno sforzo ampio ed efficace dovrebbe essere finalizzato, con l'istituzione di vere e proprie commesse di ricerca pubblica, che orientino l'industria italiana verso lo sviluppo di tecnologie e di prodotti adeguati agli obiettivi di differenziazione del sistema. In merito al terzo punto, la legge 183 ha dato un fondamento operativo a questa esigenza, con la definizione del nuovo istituto del "leasing agevolato". Uno sviluppo di questo nuovo strumento, graduale e cauto nella prima fase di attuazione, necessariamente sperimentale, consentirà di verificare e sviluppare le sue notevoli potenzialità, riconducibili - mi sembra - a tre aspetti essenziali:
a) - l'affitto-riscatto sottrae l'imprenditore ai pesanti oneri finanziari che discendono dalla necessità di ricorrere al credito per tutta la durata in cui l'investimento è improduttivo;
b) - consente di dissociare la figura dell'imprenditore-manager da quella del capitalista; e quindi di creare nuova imprenditorialità, indipendentemente dalle capacità patrimoniali. Non c'è bisogno di sottolineare tale vantaggio per il movimento cooperativo, ancora così poco diffuso nel Mezzogiorno;
c) - consente all'impresa locatrice che dovrà occuparsi delle ricerche di mercato, della progettazione, dell'impiantistica, (in pratica della costruzione e consegna dei nuovi impianti dei locatari), di realizzare forti economie di dimensione nelle operazioni relative, (es., acquisti di macchinari); e di far usufruire le piccole e medie industrie, grazie all'ampia scala di tali operazioni, delle tecniche e dei processi più avanzati; senza contare il mercato del lavoro di progettisti, impiantisti e tecnici che a tale scala può essere attivato.
Una delineazione così sommaria e schematica della politica industriale serve solo a sottolineare
due punti, troppo spesso evocati a parole e dimenticati nella pratica il primo, che la politica industriale è unitaria, e che riorganizzazioni produttive, sviluppo e differenziazione settoriale, dislocazione territoriale nel Sud ne costituiscono aspetti inscindibili, dei quali occorre garantire la coerenza; il secondo è che l'uso generalizzato e soverchiante del credito agevolato conduce a risultati perversi, e che tale strumento va circoscritto entro una vasta e articolata gamma di interventi.
nella quale acquistano rilievo fondamentale:
a) - le politiche generali dirette a ricostituire condizioni di redditività per le imprese;
b) -le politiche e gli strumenti di promozione diretta dello sforzo imprenditoriale.
Ma vi sono altri due aspetti essenziali di una politica industriale, la cui ovvietà, in termini di "ragion pura", non trova purtroppo corrispondenza, da noi, in termini di "ragion pratica".
Il primo è quello della definizione di un quadro di riferimento quantitativo dello sviluppo industriale. Vi è, (ed è inutile negarlo), un atteggiamento di fastidio, prevalente da tempo negli ambienti più raffinati del nostro establishment accademico, verso ogni esercizio di "pianificazione quantitativa". Il pregiudizio che identifica ogni tentativo di inserire criteri di razionalità programmatica con manie burocratiche, o utopistiche, o entrambe, è ancora radicato, e tutto sommato anche comodo, se rende possibile vendere come concretezza pragmatica l'antica inclinazione nazionale al pasticcio. Così, da una parte, si continua a parlare di scelte, priorità, programmi, progetti, direttive programmatiche (che le leggi promettono sempre a brevissima scadenza: entro sei mesi, entro due; entro la fine dell'anno). Dall'altra, non esiste alcun apprezzabile sforzo di calare queste ambizioni in un modesto, ma serio lavoro operativo. (Oppure questi sforzi sono compiuti in forma semi-clandestina). Da questo vuoto nascono indicazioni di politica settoriale, di sconcertante banalità e discutibilità, inserite frettolosamente in testi di governo; oppure direttive fumose, nelle quali i criteri sono indicati in forma letteraria e allusiva, con ampie contorsioni linguistiche., perché sia sempre possibile includere come eccezione ciò che il testo sembra escludere in linea di principio. Ora, una politica industriale ha bisogno di un quadro di riferimento disaggregato, perché i discorsi sulle scelte prioritarie e sull'ampliamento e differenziazione della base produttiva comincino a stare in piedi. Ha bisogno che siano esplicitati parametri, obiettivi e vincoli quantitativi, che consentano di individuare le direzioni settoriali e le tipologie imprenditoriali verso le quali stimolare gli imprenditori pubblici e privati.
(E' sintomatico che, mentre da noi il lavoro tecnico di programmazione è stato praticamente abbandonato, negli Usa si stia aprendo un grande dibattito nazionale sul "National Economic Planning" in seguito al disegno di legge presentato dai democratici, e appoggiato da economisti come Galbraith, Leontiev, Heilbronner, da sindacalisti come Leonard Woodcock e da imprenditori come Henry Ford, sulla creazione della "National Planning Agency" e sull'istituzionalizzazione di un processo di programmazione. Forse, quando il vento atlantico ci porterà il suo soffio, la programmazione "quantitativa" ritornerà di moda anche nell'establishment).
Ultimo punto. Una politica industriale dovrebbe comportare unità di indirizzi e di strutture legislative, politiche e amministrative. Su questo aspetto non c'è bisogno di insistere troppo. Per non ripetere cose dette ieri, fino alla noia, sarà più divertente citare cose dette l'altro ieri, (e precisamente nel 1787), a proposito della legislazione economica del Mezzogiorno, anzi del Regno delle Due Sicilie, da un insigne allievo di Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, consigliere del re di Napoli: "Le leggi poi de' nostri principi, per lo più intenti a provvedere a' mali passeggieri ed a palliare i permanenti, sempre obbligate, facendo statuti parziali, a preferire l'interesse particolare al bene pubblico. hanno vieppiù aumentata la confusione. L'anarchia, che sempre regnava fra le continue rivoluzioni dello stato, introdusse un numero immenso di privilegi, di esenzioni, di giurisdizioni che fecero poi germogliare tanti tribunali, onde l'ordine delle cose sempre più rimase avviluppato e sconvolto. Tutto questo ha convertito tra di noi la scienza del diritto in un caos mostruoso d'incertezze, di contraddizioni e di barbarie. Essa, che dovrebbe essere un sistema raggiante di luce, di umanità e di ragione, è divenuta un'idra spaventevole, resa ancora difficile a riformare".

NOTE
1) Quanto al significato dei due termini, mi pare opportuno accogliere la proposta suggerita da Pasquale Saraceno: ristrutturazione è "l'introduzione di innovazioni tecniche e organizzative all'interno di processi produttivi esistenti": riconversione, "la sostituzione di nuove produzioni a produzioni non più convenienti". La prima riguarda i processi, l'altra i mercati.


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