Condannato il Mezzogiorno?




Giuseppe Galasso



La Comunità economica europea ha approvato il 1. aprile un documento relativo a due regioni fra le più depresse dell'Europa occidentale: il nostro Mezzogiorno e il Languedoc francese. Il documento si riferisce in particolare all'agricoltura e contiene alcune raccomandazioni e consigli in vista di misure strutturali e di mercato, che possano mettere quelle due regioni in grado non solo e non tanto di porre rimedio alle loro condizioni di arretratezza, quanto di affrontare la sempre più forte concorrenza dei Paesi dell'Africa e dell'Oriente mediterranei.
Dal punto di vista delle strutture, la Cee consiglia perciò: salvaguardia ecologica, potenziamento dell'irrigazione, miglioramento della commercializzazione e della trasformazione dei prodotti agricoli, accentuazione della complementarità rispetto alle altre agricolture mediterranee ed europee. Dal punto di vista del mercato, la Cee consiglia poi incentivi romunitari per il commercio dei prodotti dell'area europea, misure di protezione contro la concorrenza extracomunitaria e un miglioramento della qualità della produzione. Occorrerebbe ben altro contro la crisi.
Proprio in questi giorni, l'Istituto Centrale di Statistica ha pubblicato i dati relativi agli investimenti fissi effettuati nel quadriennio 1971-74 e distinti per regione. Non sono dati confortanti. Nell'agricoltura, in moneta corrente, le quattro maggiori regioni settentrionali (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) fanno registrare nei quattro anni un complesso di investimenti per 1.381,4 miliardi; le quattro maggiori regioni meridionali (Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna) per 1.362,7 miliardi. La prevalenza settentrionale è lieve, ma, riferita alla base rispettiva di partenza e allo stato di arretratezza e alle esigenze di sviluppo delle regioni meridionali, la lieve differenza assume un significato terribilmente negativo. Per bene che vada, in questo modo si riuscirà, sì e no, a mantenere le cose nello stato attuale, ossia nel grado attuale di squilibrio fra le due parti del Paese.
E, tuttavia, c'è ancora da contentarsene, guardando all'andamento degli investimenti nell'industria; settore nel quale le quattro regioni settentrionali risultano essere stato campo di investimento per 10.621,1 miliardi; quelle meridionali per 6.134,9 miliardi. Qui non si tratta neppure più di mantenere le cose allo stato in cui sono, cioè al dislivello attuale. Si tratta di prendere atto di una circostanza di fatto; arriveremo alla fine degli Anni '70 con un'accentuazione grave dello squilibrio attuale, con un Mezzogiorno ancor più "meridionalizzato" rispetto al Nord di quanto non fosse agli inizi degli Anni '70 e di quanto non sia oggi. E indicazioni non dissimili, e per qualche verso addirittura più gravi, si ricavano dai dati riguardanti il settore dell'edilizia e quello dei trasporti.
Gli investimenti fissi sono la parte strategica, l'anima, il centro motore di un sistema economico. Quattro anni sono un periodo di tempo di lunghezza considerevole per esprimere un giudizio abbastanza valido sulla prospettiva del futuro prossimo.
D'altra parte, che c'è d'aspettarsi? Quando disporremo anche dei dati relativi ai due anni ultimi, il 1975 e il 1976, le risultanze del quadriennio 71-74 non potranno che far registrare un aggravamento ulteriore della posizione del Mezzogiorno.
Il 1975 e il 1976 sono stati gli anni dell'accentuazione inflazionistica più forte; sono stati gli anni in cui di fatto ha avuto inizio la riconversione almeno delle grandi imprese. Inflazione e riconversione sono altrettante spinte, potenti, contro il Mezzogiorno: l'inflazione, perché così vuole !a logica dei rapporti tra la sezione forte e la sezione debole di un sistema economico; la riconversione, perché di fatto è stata lasciata all'iniziativa dei più forti, ed anche perché partiti e Parlamento hanno troppo facilmente accettato che alla riconversione non si potesse dare un'impostazione meridionalistica e a tale accettazione hanno ispirato le misure legislative da adottare, dopo un lungo e travagliato iter, per promuovere la riconversione stessa.
E' consapevole di ciò, delle implicazioni gravissime dei dati a cui ci siamo riferiti, la nostra classe politica? E' possibile sperare che un grido di allarme la possa richiamare ad una riconsiderazione immediata e drastica del suo impegno per il Mezzogiorno? E' lecito attendersi che i problemi della disoccupazione giovanile e tutti quelli dell'intervento pubblico nella vita economica del Paese e la politica economica tutta del governo ricevano una qualche sterzata in senso meridionalistico, che dia un senso più concreto e, soprattutto, un senso immediato al molto parlare che tutti - dal governo ai sindacati. dai partiti alla pubblica amministrazione, dagli studiosi ai pubblicisti - facciamo di Mezzogiorno e di impegno per il Mezzogiorno?
E, giacché abbiamo accennato ad un grido di allarme, bisogna aggiungere che nel Mezzogiorno esso riguarda oggi soprattutto Napoli e la Campania. Questa regione, nelle cifre relative agli investimenti del quadriennio 1971-74, figura regolarmente, e di molto, dietro la Sicilia e dietro la Puglia: 476,7 miliardi per la Sicilia e 391,8 per la Puglia in agricoltura, contro i 255,5 della Campania, (la Sardegna segue con 238,7 miliardi e la Calabria con 236,8); 2493,4 miliardi per la Puglia e 1201,7 per la Sicilia, contro i 954,1 della Campania nell'industria, (la Sardegna ne ha addirittura 1.485,7); e così via.
Del confronto con le singole regioni settentrionali è meglio non parlare: la sola Lombardia ha 4.638,4 miliardi nell'industria, il 21 per cento del totale dell'Italia. Pure, la Campania ha il 10 per cento della popolazione italiana, quasi un quarto della popolazione del Mezzogiorno (comprese le isole), e un quinto di tutta la disoccupazione italiana. Occorre ancora riesumare la parola "dramma"? Che cosa può aspettarsi la Campania nei prossimi anni su questa base di investimenti fissi?
Il tempo perduto non torna più. Ma in politica e nella vita sociale un margine di tempo utile può sempre esserci e, se utilizzato, può significare sempre qualcosa. Ciò che non può essere in alcun modo perdonato è l'inazione, l'inconsapevolezza dei termini reali dei problemi, la sottovalutazione dei pericoli che gli squilibri del Paese e il loro costante aggravarsi alimentano ogni giorno, anche sotto apparenze esteriori di calma. Speriamo di non doverlo ripetere in qualche occasione meno calma, domani o dopodomani.

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