La figura e l'opera
di Giulio Cesare Vanini, taurisanese, ancora al centro di accese polemiche:
affrancò l'uomo da ogni condizionamento religioso, fu espressione
anticipatrice del libero pensiero; o, come sostennero i giudici dell'Inquisizione,
fu solo un irriducibile apostata blasferno?
Nacque da Giovambattista
e da Beatrice Lopez de Noguera: e ben presto si rivelò spirito
vivace, curioso, irrequieto; avido di letture e pronto al dialogo, aperto
al contatto umano: doti che non gli verranno mai meno, nel lungo arco
della sua vita. Giulio Cesare Vanini visse in un'età critica,
in un'epoca che sentiva - intenso - il bisogno di uno spirito nuovo,
di una cultura diversa, che dessero uno scrollone e liberassero l'uomo
da un passato che ormai non aveva più nulla da dire. Quanto del
neoclassicismo e dell'età rinascimentale poteva proiettarsi nell'arte,
nella letteratura e nelle scienze, era poca cosa. Alle porte della storia
bussava il pensiero barocco, un discutibile pensiero artistico, che
avrebbe sconvolto i canoni di un'età che pure aveva illuminato
il mondo, ma che avrebbe finito quasi col contemplare se stesso, la
sua astrusa bizzarria, il suo vuoto verticale, la sua frondosa ampollosità,
l'estremo compiacimento dell'arte per l'arte; ma bussava anche il pensiero
scientifico, quello che ci avrebbe dato i momenti più alti, anticipatori
della ricerca moderna, e soprattutto che avrebbe coinvolto, per forza
di cose, morale e religione, modi di vivere e modi di credere, di sentire,
di essere soggetti razionali.
Imperava Carlo V, tiranno generoso e temibile, sui cui dominii non tramontava
mai il sole: un sole che sorgeva in una lontana provincia, il Salento,
estremo oriente dell'orgogliosa capitale spagnola. E in questo estremo
oriente nacque Giulio Cesare Vanini. Erano i primi mesi del 1585. Periferia
di una provincia decentrata, Taurisano viveva - come tutti i centri
salentini e meridionali dell'Italia spagnola - giorni di estrema miseria,
tributaria e vittima di un impero che, con guerre a catena, funestava
l'Europa. Lasciato il paese natio, il giovane Vanini è a Napoli,
studente in giurisprudenza. Si addottora dopo la morte del padre, che
lo lascia privo di mezzi di sostentamento. E' il 1606. Due anni dopo
lo ritroviamo a Parigi, dove segue gli studi teologici, che lo porteranno
a indossare, poco più tardi, l'abito carmelitano. Girerà
poi per l'Europa, predicando con impetuoso fervore. Fino a che scatterà
qualcosa, una molla, uno spirito un sentimento, che si tradurranno in
una nuova visione del mondo, della morale, della religione. E' profezia?
E' eresia?
Le testimonianze che ci restano sono variamente interpretate: la figura
del taurisanese resta ancora al centro di accesissime polemiche. Alcuni
ritengono Giulio Cesare Vanini uno dei primi spiriti che affrancarono
l'uomo da ogni condizionamento religioso, espressione anticipatrice
del libero pensiero, che avrebbe dominato nelle epoche successive, fino
ai nostri giorni; per altri, invece, e primi fra tutti i giudici dell'inquisizione,
fu solo un irriducibile apostata blasfemo. In effetti, in lui sono già
presenti, e in modo assai scoperto, le istanze dell'Illuminismo, le
richieste della sovranità della ragione, cioé le esigenze
dell'uomo di essere e di sentirsi al centro del mondo, artefice del
proprio destino, costruttore della vita, dominatore della natura. al
di fuori - e al di sopra - di tutto. Condizione primaria per realizzare
questa supremazia non poteva essere che l'abbattimento della morale
religiosa, dunque la negazione di valori e concezioni della tradizione:
in ultima analisi, la rottura, senza rimpianti, col passato.
Vanini scruta nei testi sacri: approfondisce, critica, distrugge. Li
trova traboccanti di oscenità (immortalità, furti, sopraffazioni,
incesti, poligamie; strutture verticali della società, oppressione
dei deboli); e ritiene che prodigi e miracoli altro non siano che il
tributo favolistico che cementa una serie di atti contro gli esseri
umani, volti ad ottenebrare le innate facoltà razionali dell'uomo,
ad oscurarne la fantasia, a limitarne la purezza genuina, la sua naturale
autonomia. Le religioni, dunque - e non solo quella cristiana: tutte
le religioni - distruggono le capacità critiche dell'individuo
con la superstizione e il terrore dell'al di là: inferno, purgatorio,
paradiso, resurrezione, reincarnazione, sono strumenti ideologici per
rendere il pensiero umano succubo e impotente.
Ma allora, cos'è Dio? Niente e nessuno. Prende il suo posto una
"Natura che è Dio che è egli medesimo Natura".
La Natura vaniniana è dolce, buona, signora dell'universo, guida
delle nostre azioni, regina incontrastata delle cose del mondo. Come
è stato acutamente notato, questa visione naturatistica è
del tutto originale: e occorrerà attendere alcuni secoli e la
venuta di Nietzsche per ritrovare una critica altrettanto spietata nei
confronti del Cristianesimo, considerato (motto probabilmente per l'altezza
di certi suoi valori: amore per il prossimo, rispetto per l'uomo e il
mondo che lo circonda, morale che coincide con la purezza assoluta,
e via dicendo) religione superiore, e dunque più temibile, cioé
più menzognera. Il Cristianesimo, sostiene Vanini, è la
maledizione della carne; fa degli uomini un allevamento di idioti; forza
e violenta le naturali, buone inclinazioni dell'anima umana; turba -
con la falsa prospettiva della vita eterna - il pensiero di chi, grazie
alla natura, deve invece godersi la vita; costringe milioni di uomini
a sacrificarsi sull'ara della superstizione e dell'illusione. Scrutate
la natura, sostiene Vanini, penetrate i suoi misteri, che attendono
di essere conosciuti, leggete i suoi fenomeni: la natura redime l'uomo
su questa terra, mentre religione e teologia lo vogliono inerte, massificato,
passivo.
Alla luce di moderne proiezioni scientifico-religiose (da Lamark a Darwin,
da Lombroso a Sergi, al Niceforo; e soprattutto dopo il naufragio della
dottrina positivista), sarebbe fin troppo facile controbattere le teorie
del taurisanese: e basterebbe affermare che è l'uomo a servirsi
dei fenomeni e delle ferree leggi della natura per dominare la stessa
natura e gli stessi uomini, con strumenti di distruzione in grado di
cancellare la vita, di sconvolgere forse per sempre gli immensi e delicati
equilibri su cui si è retto, per miliardi di anni-luce, il "sistema"
biofisico terrestre: basterebbe ricordare questo, per avvertire che,
se dolce e buona può essere la natura, dolce e buono l'uomo non
è, né legittimi - dal punto di vista morale e civile -
sono i suoi intenti e principi. Né, d'altro canto, una qualsiasi
religione (e tanto meno quella cristiana) può ridursi alla visione
di frustratrice d'ogni dignità umana: distorsioni e schiavitù
la religione ha creato, forse anche più di quanto consentito;
non a caso oggi si riconsidera la storia delle Crociate, ritenute senza
più ombra di dubbio anticipatrici dei genocidi e delle invasioni
e dominazioni, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo; e la figura del
missionario che. la croce in pugno, precedeva i "Conquistadores",
oggi si giudica in senso critico, come alibi e carta di credito per
un colonialismo che, (dato acquisito nella coscienza moderna), ha fatto
il suo tempo.
Tuttavia, se questo è il "male", va riconsiderato anche
il "bene", e particolarmente per il Cristianesimo, che rivoluzionò
una concezione del mondo, salvò una civiltà, ne raccolse
e trasformò l'eredità, tramandò opere letterarie,
stimolò l'arte, riordinò l'agricoltura, raccolse popoli
dispersi, li cementò con un'arma più
forte di qualunque forza: l'amore. Diede dignità ai vinti, rivelò
la pietà ai barbari vincitori, dischiuse i limiti angusti della
vita naturale, indicando una proiezione nella vita soprannaturale, costringendo
l'uomo a vivere e ad agire per un fine che lo trascendeva.
Fu condannato dalle autorità religiose come ateo e bestemmiatore.
Gli si diede una caccia senza tregua. Catturato a Tolosa (era il 9 novembre
1619), subì la tortura, fu strangolato; gli fu mozzata la lingua;
infine il corpo, irriconoscibile, fu gettato al rogo; le ceneri, disperse.
Contraddizione abnorme: il Cristianesimo che insegnò il perdono
per i nemici, generò l'Inquisizione, il cui vocabolario non conteneva
né la grandezza del perdono, né la bellezza della pietà.
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