§ Le inchieste della Rassegna

SARDEGNA senza Eboli




Realizzazione
ALDO BELLO
Testi e statistiche
GUGLIELMO TAGLIACARNE
Hanno collaborato
Ricerche letterarie
Ada Provenzano
Ricerche storiche
Pino Orefice
Ricerche economiche
Claudio Alemanno
Sezione grafica
Sandro Gattei
Sezione fotografica
Folco Quilici
Giuliana Calebrese




Se per il Sud c'è una frontiera ideale, oltre la quale possono essere sviluppo e benessere, o per lo meno l'illusione ottica di una diversa dimensione civile, per quest'isola invece duemila anni di invasioni, persecuzioni e sfruttamenti hanno consolidato un fiero istinto di autodifesa e una radicata diffidenza nei confronti di chi non è espressione di una civiltá - quella autoctona - che malgrado i codici d'onore e le cristallizzazioni resta, nella lingua, nei riti, nei comportamenti, tra le più originali e intatte d'Europa.

Seconda isola del Mediterraneo, ha un'area di 23.814 Kmq, più 275 Kmq di isole minori. La sua maggiore lunghezza, dalla Punta del Falcone a nord a Capo Teulada a sud, è di 271 Km; la maggiore larghezza, fra i Capi Comino ad est e Argentiera ad ovest, è di 145 Km. La distanza minima dall'Italia - da Olbia a Orbetello - è di 180 Km. Insieme con la Corsica, con la quale forma un tutto unico, separato da una lingua di mare, è il resto di una terra granitica emersa nel nostro emisfero prima ancora delle Alpi e degli Appennini. Ha clima mediterraneo. L'idrografia è a carattere torrentizio, con il Tirso massimo fiume. Moltissimi i laghi e gli stagni costieri. Nel cuore dell'isola, la montagna è aspra, impietuosa e bella. Alla sua ombra si aprono, verdi pianure, i Campidani.

Barbaria

Aldo Bello

Verso la metà del secolo scorso corse voce che Cavour volesse cedere l'isola alla Francia. Vera o falsa che fosse la notizia, ne rimase anche dopo un senso di sospetto e di reciproco imbarazzo. Da una parte, l'Italia sì interessava pochissimo alla Sardegna, dall'altra Cagliari rimproverava al "continente" sgarbi e sfruttamenti di tipo coloniale. In realtà, gli stranieri più che gli italiani hanno tentato di afferrare il senso riposto della storia, della lingua, delle tradizioni e della cultura sarda. E l' isola, il più antico lembo di terra emersa del nostro emisfero, ha aperto il cifrario della sua civiltà agli stranieri prima che agli italiani. Qui, tra l'altro, sono maturate esperienze che nulla hanno in comune con quelle "continentali". Ad esempio: nell'isola vigeva, fino ai primi decenni del secolo scorso, la comunità dei beni rurali. Ogni paese era concepito come l'epicentro di un mondo a sé: la terra era affidata per un terzo ai contadini e per due terzi ai pastori. D'anno in anno avveniva la rotazione. Tutto ciò durava da millenni, fino a che Vittorio Emanuele I, con la legge delle "chiudende", stabili la fine del sistema comunitario. Cosa diceva la legge delle "chiudende"? Che per diventare proprietari della terra bastava recingerla. Ne beneficiarono coloro che sapevano leggere, cioé i ricchi, e coloro che avevano i quattrini per le recinzioni vale a dire gli stessi ricchi. Da allora i pascoli si trasformarono in una ricca rendita, mentre le condizioni dei pastori divennero disperate. Crebbero la diffidenza, l'odio, il disagio economico. Si perpetuò la guerra dei recinti, che divampa da oltre un secolo coinvolgendo decine di migliaia di servi-pastori, sintesi perfetta di fierezza e di arretratezza. Può apparire strano ma il trauma causato da quell'editto è ancora oggi molto vivo. E proprio dal senso di umiliazione e di frustazione del pastore nascono e si acutizzano gli stimoli alla rivolta e alla vendetta sociale, che sono alla base dell'odierna inquietudine pastorale.
Non è la prima volta che la situazione criminale della Sardegna consiglia l'invio di rinforzi speciali di polizia. I primi "baschi blu" vi sbarcarono un paio di migliaia di anni fa, verso il 19 dopo Cristo. Siccome le liti fra israeliti e greco-egiziani tenevano sulla corda l'Egitto, il Senato romano (imperatore Tiberio) deliberò di spedire nell'isola ebrei ed egiziani di bassa estrazione, che si ostinassero nei loro culti "superstiziosi". Il Senato (dice Tacito) rifletté che, violenti contro violenti, se la sarebbero vista tra di loro. E spedì ben quattromila "poliziotti". Egitto, Sicilia e Sardegna erano i granai di Roma. I soldati dovevano difendere solo il grano.
Ci si può chiedere come mai, in un paese ben coltivato, in fondo più ricco di oggi, potesse fin da allora svilupparsi un brigantaggio tale da richiedere misure speciali. La risposta è che era ormai un luogo comune per geografi e gli storici dell'epoca, (Diodoro Siculo, Strabone), attribuire tutti i fatti di violenza alla barbarie della popolazione del centro dell'isola. Scrive Strabone: avevano anche loro terre fertili, ma alla coltivazione preferivano il ladrocinio, che a volte esplodeva e si espandeva, né era facile reprimerlo. Come si fosse formato questo "nucleo duro" si spiegava col fatto che i tanti conquistatori della Sardegna, fenici e cartaginesi e greci e romani, avevano fondato colonie sulle coste, occupando i pianori più redditizi e cacciandovi gli aborigeni. Non avevano travalicato le montagne che coprivano in tre punti cardinali, tranne che ad est, la regione di Nuoro. Dopo i romani, i bizantini succhiarono l'ultimo sangue dei sardi, lasciando poi alla deriva l'isola, che si divise in quattro Giudicati che confinavano tra loro esattamente nella regione nuorese, che finì per diventare eccentrica e poco "governabile".
In seguito, l'isola cominciò a passar di mano: Pisa e Genova, poi Spagna, poi Savoia. Il centro nuorese restò sempre eslege.
Quando, col Risorgimento, si cercò di far qualcosa, Sardegna e Nuorese diventarono oggetto di studi etnologici, quasi cavie per gli esperimenti nel laboratorio della scuola positivista di Lombroso e
Sergi, di Enrico Ferri e Alfredo Niceforo. Fin da allora l'isola risultò prima nella graduatoria criminale per il gran numero di delitti consumati nell'area di Nuoro. La scuola positivistica diede una spiegazione tipica delle cause: chiuso fra le montagne, il Nuorese non aveva seguito l'evoluzione del resto del mondo e si trovava ancora in uno stadio molto primitivo di moralità per il quale era suprema virtù l'"aggressività". A questa causa fondamentale andavano aggiunte quelle concomitanti: scarsa viabilità, piccola proprietà mandata in rovina dallo sfruttamento e dal fiscalismo, malgoverno, indisponibilità di beni civili e servizi sociali. Ma restava come fatto determinante il "temperamento regionale", che il Niceforo accostava al comportamento tipico del selvaggio e del criminale. Perché i poveri selvaggi, in clima di evoluzionismo, se la passavano male, essendo - appunto - non evoluti, cioè inferiori in ogni senso. Perché allora il Settecento ammirò tanto i primitivi? Perché in quel secolo si formarono le grandi nazioni, e per formare le grandi nazioni fu necessario risvegliare lo spirito tribale, attribuirgli l'etichetta di una morale autoctona, renderlo guerriero ed eroico. Certo, la guerra non fu abitudine dei primitivi, ma un'invenzione della civiltà. Tanto è vero che, a discarico dei nuoresi, dev'essere sottolineata la non-frequenza dei delitti d'onore, che tuttavia può esser frutto di una morale sessuale abbastanza elastica. Della quale si occupò anche un uomo di chiesa, San Gregorio, il quale delimitò una "zona calda" tra Barbagia e Nuorese, fino alle propaggini meridionali del Gennargentu: "Regione montuosa - scriveva - in cui abita gente che vive nei boschi, senza leggi né vera religione, che si dice sia rimasta là quando l'isola venne ricuperata dalle mani dei barbari d'Africa. Le sue donne sono eccessivamente sensuali e impudiche, e gli uomini lo permettono. Infatti, dato il caldo e le cattive abitudini, girano vestite di lino bianco, e sono così scollate da mostrare il petto e le mammelle..." In queste stesse aree si assisteva alle corse dei cani scuoiati. Dati questi punti di partenza, la scuola positivista non poteva che giungere ai dogmi delle strutture fisio-somatiche: poiché i sardi sono alti tanto, mediamente; hanno la testa con misure e conformazioni tipiche; fronte prognata collo occhi bocca che rientrano in certi nostri parametri: non possono che essere tendenzialmente portati a delinquere! Questo il verdetto positivista. E il socialismo coevo, che protesse questa scuola arruffona e cialtronesca, non apri bocca: tacendo, approvo.
E' stato detto che la mitizzazione letteraria e scenica del delitto è un vecchio male, non soltanto italiano. Perciò in Sardegna i sequestri di persona, le uccisioni, le rapine aggravate, le evasioni, spesso costituiscono la materia prima di una sinistra epopea. Nuorese e Barbagia sono stati un nostro piccolo Vietnam pastorale, che nei momenti di maggior tensione ci ha dato uno spaccato impressionante della realtà sarda: il banditismo affonda le radici in uno società che, abbandonata da Roma, continua ad essere un reliquato etnico, con rapporti di produzione e sistemi di vita che sono il terreno di coltura della violenza.
La criminalità tradizionale, figlia della società pastorale, sopravvive in quasi tutte le sue manifestazioni tipiche. Essa prorompe dall'economia di ovile e si fonda sui reati collegati al possesso e alla difesa del bestiame: abigeato, sconfinamento, sgarrettamento, sfruttamento abusivo dei pascoli, macellazione clandestina, vendetta. Ha una fisionomia precisa, origini storiche e psicologia caratteristiche. La pastorizia rappresenta ancora uno dei cardini dell'economia sarda. Se le statistiche registrano una diminuzione di quei reati tipici, ciò dipende da circostanze legate alla crisi generale dell'agricoltura e degli allevamenti, allo spopolamento delle campagne e delle montagne, all'inurbamento, all'emigrazione. Ma finché esisterà una pecora si rinnoverà il tentativo di appropriazione: l'isolamento dell'uomo dal mondo delle comunicazioni civili incoraggerà l'arretratezza del costume in un gioco tragicamente anacronistico.
E' una verità relativa che il pastore tende ad abbandonare definitivamente l'ovile per trasferirsi in città e che il processo d'integrazione nella civiltà delle macchine e dei consumi non proponga alternative sociali e psicologiche alle condizioni di pastore inurbato. Questo accade. Solo non spiega la diffusione dei reati caratteristici della criminalità moderna. E' vero che il pastore trasferisce nella città tutto il suo bagaglio di mentalità tabù, costumi e bisogni, che stanno alla base della criminalità tradizionale. Tuttavia, sarebbe un grave errore supporre che la ondata criminale di cui sono investite le città sia conseguenza diretta di questa tendenza ad abbandonare i pascoli e gli ovili. Il pastore è abituato a farsi giustizia, con i mezzi a sua disposizione: non scrive lettere, non usa telefono, non guida auto veloci, non sa destreggiarsi fra le insidie della psicologia urbana. E' un solitario che agisce nella consapevolezza di trovare protezione e aiuto nel meccanismo delle complicità, proprio del suo mondo.
Sono invece le nuove fonti di reddito, (industrializzazione, commercio, turismo, speculazione sui terreni.), ad aver prodotto una nuova criminalità, del tutto estranea all'antica vena maligna. A nuove risorse corrispondono nuovi bisogni. Come la società pastorale ha generato e tiene in vita una delinquenza primitiva e rudimentale, così la civiltà delle macchine esprime e determina la formazione di una delinquenza in grado di approfittarne in schemi moderni. La speculazione sull'uomo ha sostituito la speculazione sull'animale. Spesso accade che la criminalità di città si serva della criminalità di campagna. Ma sono alleanze occasionali. A differenza del pastore-bandito, il ricattatore o il sequestratario opera su un terreno che esige organizzazione e calcolo. procede con scrupolosa preparazione tecnica, agisce con mentalità da gangsters. Non è un solitario. Ha possibilità di mimetizzazione nel tessuto stesso delle città, perché viene anche da ceti insospettabili. Si adegua alle situazioni ambientali. E' tenace, spregiudicato. Ha scoperto, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, gli idoli e i vizi della società contemporanea: tutto un campionari o suggestivo di equivoci e illusioni, senza l'aiuto della morale e della cultura. E' disponibile al rischio come alternativa alla mancanza di valori e di prospettive, come protesta irrazionale contro la politica (nel significato primo dell'etimo: vita del cittadino). Si converte al crimine anche con superficialità. Solo le sue tecniche non sono superficiali. Ciò che lo accomuna al pastore-bandito è la ferocia. Per il resto, sono personaggi inconfondibili.
Il rapporto offesa-vendetta è il tema fondamentale dell'ordinamento giuridico che la "società di Barbagia" si è data attraverso i secoli, in contrapposizione all'ordinamento giuridico statale. Questo ha origine riflessa, quello è di formazione spontanea. La pratica della vendetta non promana da una codificazione scritta. Si identifica in un concetto genericamente perseguito di giustizia locale, privata, alla quale però si attengono intere comunità. E' la giustizia barbaricina, ereditata come regolamentazione di un sistema di vita associata e come risultato di una mentalità in ritardo. Essa si origina da un complesso di usi, costumi, condizioni psicologiche e ambientali che sopravvivono in aree dell'interno, in una società rurale che ha il più fitto insediamento nella Barbagia, antica "Barbaria", terra aspra, indocile, che ha, difeso i suoi caratteri originari, resistendo a lungo alla penetrazione di "civiltà" esterne.
"La vendetta barbaricina come ordinamento" è il titolo di uno studio interessantissimo condotto da Antonino Pigliaru, intellettuale di notevole impegno politico. Pigliaru sviluppa l'idea che le genti barbaricine si sono imposto un codice che può essere inteso come ordinamento giuridico sia nella sua attuazione pratica che nel suo senso etico. L'enunciazione delle norme scaturisce dall'osservazione del costume, dal cumulo delle testimonianze, dalla realtà dei rapporti all'interno delle comunità pastorali. Il concetto ispiratore è identificabile nella vendetta come metro di giustizia. Di conseguenza, non deve stupire la constatazione che anche la vendetta è condizionata dal rispetto della verità. Le responsabilità meritevoli di vendetta debbono risultare chiare e ineccepibili perché la punizione sia approvata, legalizzata dalla complicità della comunità o del gruppo o della famiglia. Altrimenti non ha motivazione morale, è pretesto per il sopruso. Ecco quindi scattare il rozzo meccanismo di un processo istruttorio per l'accertamento delle colpe reali e l'individuazione del responsabile. In questo campo la verità della giustizia legale non fa testo.
Secondo il codice, la vendetta è "proporzionata, prudente progressiva". Ha l'elasticità delle pene previste dal codice penale. E proporzionata alla gravità dell'offesa ricevuta, prudente nell'accertamento preliminare delle responsabilità e nell'esecuzione, progressiva nel tempo e nelle modalità. Dal quadro generale si deduce che la vendetta ha scadenza: alla stregua di una sentenza, può cadere in prescrizione. Quella che non decade è la vendetta volta a lavare le offese di sangue. Poiché all'impegno vendicativo è legato tutto il gruppo di chi ha ricevuto l'offesa, la punizione può essere realizzata da un qualsiasi componente. Inoltre, questa vendetta è un impegno ereditario. Il che rappresenta una delle più grosse difficoltà per le indagini su un delitto in Barbagia: non si sa quasi mai a quando risalgano i moventi. L'evoluzione dei tempi ha insegnato l'utilità della vendetta trasversale, o su commissione. In un tessuto mentale di tal genere, è facile immaginare quante deformazioni a tinta criminale possono emergere, e quante forme può assumere l'attività criminale.
Se l'evoluzione economica e sociale della Sardegna avesse raggiunto prima o poi i risultati che si speravano, forse oggi non parleremmo ancora di un banditismo sardo protagonista di casi clamorosi. Le cose sono andate diversamente. Oltre tutto, gli scarsi interventi dello Stato hanno trovato in risposta da parte dei dirigenti locali non una vera pianificazione, ma programmi frammentari e indecisi, abbozzi di iniziative o troppo timidi o insensatamente grandiosi. Si è auspicato con frenesia uno sviluppo economico realizzato solo dai sardi, ma i tentativi hanno avuto il respiro corto. Quando si è visto che non servivano a mutare la situazione, si è chiusa l'esperienza e ci si è consegnati agli imprenditori del Nord e d'oltralpe, senza aver nemmeno predisposto i piani per convogliare le iniziative in un programma organico.
Ad Orgosolo, antica capitale del banditismo sardo, il vecchio fuorilegge si modella sul giovane gangster. Vi perdurano tutte le forme di delinquenza tradizionale, le faide tra dinastie di pastori, le sanguinose lotte tra latitanti. Vi si rispecchia la Sardegna immobile degli uomini dal viso duro, che indossano stivali e giacche di velluto, immersa in una delinquenza apparentemente statica, che ha traversato i secoli senza consumarsi. Il cimitero sorge su un alto sperone bieco e freddo. E le tombe, le nicchie, i sacelli, i monumenti funebri sono rivolti in giù: i morti guardano in faccia il palazzo di città ove ha sede l'autorità costituita. A leggere certe lapidi, pare di trovarsi di fronte a martiri del Risorgimento. E sì tratta dei più sanguinari fuorilegge, braccati per anni dietro ai loro delitti, e uccisi in conflitto con le forze dell'ordine. Circonda Orgosolo una natura ferma, pietrificata. Il sole è nemico delle colture. I monti, spopolati, sono montagne crepate, sventrate dalle forre, butterate dalle bocche di mille cunicoli. Unica forza dirompente, il delitto, l'omertà, la latitanza. Tra le montagne più tenebrose biancheggia da alcuni anni un collegio per ragazzi. E' il primo del Nuorese, e persegue lo scopo di sottrarre all'ambiente le nuove generazioni. Non lo gestisce lo Stato, bensì i camaldolesi, giunti qui da una terra lontana e straniera: da Arezzo. Questo Stato, venuto in Barbagia travestito da frate, riassume le condizioni che consentono alla criminalità sarda d'avere nuove morfologie.
Orune è nel cuore della più vasta e intatta "repubblica" di pastori" isolana. Appare tra i monti scheggiati, tra i grandi spazi della Barbagia, tra le solitudini immense. E' più tristemente famosa della stessa Orgosolo come roccaforte del sardismo immobile. Il paese è tra i meno poveri dell'area, ma il mondo pastorale non ha rinunciato al suo terribile codice. Qui si cantano i "muttos", le lunghe, dolcissime lamentazioni funebri accanto al corpo del bandito ucciso, le poesie che tessono le lodi del caduto. E' un canto che ha origini remote e misteriose. Dice: "Ciò cantiamo di te, a vergogna dei vili". Vile, a Orune, è chi non si fa bandito.
Oliena, Mamoiada, Fonni, Cabras. Sembrano paesi senza tempo. Tutta la Barbagia è una terra verticale,. alza al cielo colline e picchi. Ma dentro c'è il vuoto, e più che terra di banditi sembra terra di asceti. Bitti è un villaggio che genera fuorilegge a catena. Sono aree stupende, dominate dal massiccio azzurro del Gennargentu, sui cui contrafforti si aprono l'Ogliastra e le tre superbe Barbage, Ollolai, Belvì e Seulo, boscose e selvagge oggi, una volta culla della civiltà protosarda e cuore della più autentica Sardegna. Striano i monti calanche orride, precipizi micidiali. Lungo la costa, da Orosei in là, non c'è banditismo. Ma dicono che gli uomini migliori non sono qui. Sono nelle terre orientali, quelle che hanno dato il novanta per cento della "Sassari", la più celebre brigata dell'esercito italiano: quella che aveva cancellato dal suo linguaggio, per sé e per gli altri, la parola pietà.
Ollolai, Orotelli. E' scritto sui muri: "Pro che rughere in manos de sa zustiscia, mezus mortus". Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia, meglio morto. Gavoi, Sa Caletta: vi si parla l'antico latino, quello dei trovatori. E' la stessa lingua del codice non scritto: "Furat chie furat in domo o chie venit dae su mare". Ruba chi ruba in casa o chi viene dal mare. Gli abitanti sono quasi tutti imparentati fra di loro, e divisi in pochi cognomi fondamentali: un delitto o un furto, qui, scatenano vendette che sono un'ecatombe.
Nuoro fu promossa capoluogo per motivi di ordine pubblico, perché ci fossero prefettura, questura, tribunale, carcere; perché i briganti che allora popolavano i suoi monti sentissero più vicina la mano dello Stato, che allora non temevano. che oggi - sulla scorta del pensiero separatista di Asproni - disprezzano. Gli orli marini hanno aspetti molto vari: rocce a picco sulle acque e spiagge aperte mutano ad ogni passo, le coste sono vigilate dalle torri di guardia erette da Filippo secondo. All'interno, splendidi resti della civiltà protosarda.
Il cammino che l'isola deve ancora compiere si misura volando a bassa quota sulle piane dei Campidani: dalle rughe sconvolte della Barbagia e dell'Iglesiente scendono al mare distese secche e nude, avvolte di riverberi rossi e viola, con gli improvvisi scacchieri verdi delle aree fertilissime raggiunte dalle irrigazioni.
All'orizzonte meridionale si staglia Cagliari, capitale che non ha rimpianti di antiche grandezze.
Logudoro, Anglona, Gallura. Povere terre occidentali dell'alta Sardegna, con tanta acqua che si potrebbero creare le più vaste risaie d'Italia. Vi si diffonde un turismo costoso, elitario. Nuovi faraoni ripropongono la cronaca dell'invasione costiera. Ai villaggi fenici, cartaginesi, romani, si sostituiscono quelli consumistici del Club Mediterranee. Ai nuraghi succedono le ville dei nuovi ricchi. Una cortina di tufi bianchi, status symbol del benessere altrui, cinge d'assedio la millenaria povertà dell'altra Sardegna: quella più vasta e più vera, terra forse più chiusa, ma certamente meno colpevole al giudizio della storia.

Letteratura di Sardegna

Ada Provenzano

Documenti scritti in volgare sardo, provenienti - oltre che dall'isola - anche dalle biblioteche di Pisa, Genova e Marsiglia, risalgono al secolo XI: sono carte di donazioni patrimoniali, franchigia o immunità, regesti di compravendita, lasciti, sentenze, che illustrano una vivace attività economica di chiese e monasteri. A questa funzionalità "civile" della lingua sarda non corrisponde però un uso propriamente letterario. Anzi, la cultura isolana si rivela singolarmente chiusa e quasi refrattaria ad ogni influsso esterno; e la stessa situazione linguistica ha caratteri di fortissima autonomia e si differenzia profondamente dai dialetti italiani contemporanei. Il latino, dunque, continua ad essere la lingua colta per la letteratura agiografica e didattico-religiosa.
Ad esso si aggiunse, dopo l'occupazione aragonese, lo spagnolo, che sopravvisse fino al secolo XVII, secolo in cui cominciò a prender piede l'italiano, consolidato e ufficialmente riconosciuto lingua delle popolazioni urbane colte solo nel secolo successivo. Fino al Settecento, dunque, fu pressoché nullo il contributo dei sardi alla letteratura italiana. Il primo, e si può dire unico nome di rilievo è quello del cagliaritano Carlo Buragna (1634-1679), che, peraltro operando lontano dalla terra natia, si inserì nel quadro della letteratura meridionale.
Anche nel secolo dell'Illuminismo, sulla scia delle scarse riforme innovatrici e del costante sfruttamento della Sardegna, il moto rinnovatore della cultura passò come un debole vento sulla testa dei sardi. Sono da ricordare insigni figure di riformatori: G. Cossu e un piemontese, Francesco Gemelli; il giurista sassarese e fondatore del diritto marittimo Domenico Azuni, il quale poi, nostalgico esule a Parigi, illustrerà le tradizioni e i costumi della sua regione, pubblicando opere che costituiscono gli incunaboli della storiografia locale, (Essai sur l'histoire de Sardaigne, Histoire géografique, politique et naturelle de la Sardaigne). La sua opera sarà poi ripresa e sviluppata, anche se con diversi intendimenti e disposizioni d'animo, nel Risorgimento, da sardi d'alto ingegno, cui va il merito di avere inserito la regione nella vita nazionale. Per citare i maggiori: Giuseppe Manno e Giovanni Siotto Pintor.
Il volto dell'isola, però, si riflette meglio nella letteratura dialettale, già nata sullo scorcio del secolo XVI come affermazione di indipendenza dagli spagnoli. Poesia religiosa e civile, storiografia, saggio, favolistica, trovano cultori di rilievo, soprattutto nel secolo XVIII, da G. Araolla a M. Madau, R. Congiu, G. Delogu Ibba, G. Pes, G. P. Cubeddu, P. Pìsurzi, F. I. Mannu, E. L. Pintor. Con i poeti dell'Ottocento si ha un'adesione più intensa all'animo popolare. Ne sono esponenti maggiori A. Canu, P. Pasu, P. Calvia,
e soprattutto A. Casula, detto "Montanaru". E la tradizione poetica in vario vernacolo sopravvive anche nel nostro secolo, con toni e spiriti sostanzialmente immutati, restando la voce più autentica e l'espressione più compiuta dell'anima sarda.
A questo patrimonio preziosissimo consapevolmente si ricollegano quegli scrittori che tra la fine dell'Ottocento e il Novecento danno alla letteratura nazionale opere di primo piano: Salvatore Farina, Sebastiano Satta, Annunzio Cervi, Grazia Deledda, che diede al nostro paese un premio Nobel, e ancora Giovanni Moi, e il più vivo degli scrittori sardi contemporanei, Giuseppe Dessì, e Tonino Ledda poeta della repubblica pastorale di Ozieri, e il ciassicista (come poeta e come narratore) Francesco Zedda, e il robusto Emilio Lussu, e infine Gramsci, che con Gobetti diede all'Italia una nuova, moderna coscienza critica, e aprì ampi varchi nella muraglia dello storicismo crociano.

Storia di Sardegna

Pino Orefice

Largamente rappresentata è la civiltà neolitica, in grotte naturali e artificiali e in resti di villaggi all'aperto. Nell'epoca del bronzo la civiltà sarda ha un cospicuo sviluppo, soprattutto con i nuraghi (vi si è rinvenuta suppellettile industriale e guerriera), e con il culto dei morti (seppelliti nelle "tombe dei giganti", che sono uno sviluppo dei dolmen, o nelle "domus de janas", grotte scavate artificialmente).
Verso il secolo VIII a. C. si ha l'espansione fenicia, proseguita dai Cartaginesi. Entrano poi in scena i Greci, e verso la metà del secolo VI il dominio dell'isola è conteso da Cartagine e dalle poleis elleniche. Gli africani ebbero la meglio, anche se estesero il dominio e il controllo solo sui litorali, mentre gli indigeni si ritirarono all'interno, restando liberi, e scatenando, senza soluzione di continuità, fino alla metà del secolo scorso, una serie di rivolte. L'isola fu provincia romana nel 226 a. C. Assunse in questo periodo una notevole importanza strategico-navale e fu centro di rifornimento granario per L'Italia continentale.
L'occupazione dei Vandali, avvenuta intorno al 455, segnò l'inizio di una rapida decadenza delle città sarde e della civiltà dell'isola: si ebbe all'interno una ripresa dei Barbaricini, e il paganesimo vi resistette almeno fino ai tempi di San Gregorio Magno. Tra la fine del secolo V e il principio del VI l'isola fu forzatamente centro di cultura ecclesiastica: vi erano stati inviati ripetutamente in esilio vescovi africani dai re vandali persecutori del Cattolicesimo. Nel 534, con la conquista di Belisario, la Sardegna tornò sotto l'Impero romano. Ci fu poi una brevissima occupazione di Totila. La dominazione bizantina si distinse soprattutto per il suo oppressivo fiscalismo.
I Longobardi non si stabilirono mai nella Sardegna. Iniziarono invece già nei primi decenni del secolo VIII le incursioni musulmane, provenienti dall'Africa e dalla Spagna, che durarono fino alle soglie del secolo M. Abbandonata a se stessa, l'isola si difese da sé, sviluppando un'organizzazione locale fondata sui Giudicati, che dopo il Mille furono quattro: Cagliari, Arborea, Logudoro e Gallura. Poi intervennero le repubbliche marinare di Genova e Pisa, che sconfissero i musulmani, ma inaugurarono nello stesso tempo una lunga epoca di reciproche lotte per il predominio sull'isola. Solo nel 1326 Pisa rinunciò ai suoi interessi sardi in favore della casa d'Aragona. Dopo diverse rivolte di indomabili capi locali (soprattutto nel giudicato d'Arborea, con la leggendaria Eleonora), si ebbe l'ispanizzazione dell'isola, con la diffusione di un feudalesimo aragonese-catalano che, nonostante alcuni buoni provvedimenti, tuttavia aggravò la decadenza dell'isola. In questo periodo la popolazione subì perdite enormi e massiccie emigrazioni.
Il trattato di Utrecht (1713) assegnò la Sardegna all'Austria che, col trattato dell'Aia (1720), la passò a Vittorio Amedeo II di Savoia, in cambio della Sicilia. Alla fine del regno del terzo Vittorio Amedeo, l'isola fu coinvolta nella prima guerra di coalizione contro la Francia rivoluzionaria. Si ebbero poi vari tentativi di occupazione da parte francese. Seguirono tempi difficili, con malcontenti, moti, rivolte. Dopo la restaurazione, il viceré Carlo Felice effettuò alcune riforme amministrative e legislative, riprese poi più radicalmente da Carlo Alberto. Nel 1835 si ebbe finalmente l'abolizione del feudalesimo. Dodici anni dopo fu abolita l'autonomia dell'isola. Da allora, la storia della Sardegna fece parte di quella del Piemonte e dell'Italia.

A. Gramsci

Claudio Alemanno

Nacque ad Ales nel 1891, mori a Roma nel 1937. Figlio di un povero impiegato del registro, sperimentò fin da piccolo l'indigenza familiare e la miseria del contadino e del pastore sardo, e a un tempo visse a contatto con una natura selvaggia e favolosa che molto contribuirà, più tardi, alla sua umana ricchezza d'animo. Nel 1911 partì per Torino, dove seguì le lezioni di Cosmo, Farinelli ed Einaudi, entrò in contatto con l'ambiente operaio, avviò le collaborazioni ai giornali. Nel maggio '19, con Togliatti, Terracini e Tasca, fondò L'Ordine Nuovo. Durante il XVII Congresso del Psi, a Livorno, guidò la scissione che portò alla nascita del Pci. Nel '22 fu a Mosca, nel '23 a Vienna, nel '24 a Roma. Due anni dopo fu arrestato e condannato a cinque anni di confino a Ustica. Il Tribunale Speciale mutò la pena, portandola a 22 anni e 4 mesi di carcere. Fu trasferito nella casa penale di Turi, presso Bari, dove, dopo nove anni, ebbe la prima emotisi. Per le pressioni internazionali (Gorkij, l'Arcivescovo di Canterbury), fu trasferito prima a Formia, poi a Roma, dove mori nella clinica Quisisana. La cognata riuscì a sottrarre all'Ovra 2.800 pagine dei 32 quaderni nei quali per un decennio Gramsci aveva lasciato il segno del suo pensiero.
Sulla questione meridionale Gramsci scrisse diverse pagine. Al di là di quanto lasciò nei "Quaderni", il suo pensiero fu espresso a più riprese -e in differenti sedi - con "Il Mezzogiorno e la guerra", con "Clericali ed agrari", con tre articoli su "Operai e contadini", con "Il Mezzogiorno e il fascismo", con "Alcuni temi della questione meridionale". Gramsci impostava la "questione" come un ponte che garantiva una sostanziale unità politica al Paese nei suoi effettivi contenuti (blocco industriali-agrari), da ribaltare con la rivoluzione, frutto di un'alleanza operai del Nord contadini del Sud. Ecco l'analisi gramsciana: la società meridionale è un grande blocco agrario costituito da tre strati sociali: la grande massa contadina, amorfa e disgregata; gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale; i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare un'espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Secondo Gramsci, il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri, ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. In questo modo, Gramsci prendeva le distanze da Salvemini (che aveva anticipato l'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud, ma in una visione di larga solidarietà nazionale), e nello stesso tempo attaccava i due massimi esponenti del mondo politico e intellettuale del Sud, Giustino Fortunato e Benedetto Croce, definiti "in un certo senso, le più grandi figure della reazione italiana".

PROFILI DELLE REGIONI DEL MEZZOGIORNO

5. - Sardegna

Guglielmo Tagliacarne

Una Regione in via di sviluppo specialmente per l'industria e il turismo.

La Sardegna è una regione povera rispetto alla inedia nazionale, ma, insieme all'Abruzzo, è la "più ricca" nel Mezzogiorno. Infatti, posto uguale a cento il reddito medio pro capite prodotto nel complesso nazionale, abbiamo per la Sardegna un valore di 81,1, contro 65,1 in Molise, 68,0 in Campania, 71,6 in Puglia, 66,8 in Basilicata, 57,7 in Calabria, 70,6 in Sicilia. Solo per l'Abruzzo si constata un valore di 82,8, lievemente superiore a quello della Sardegna.
Anche se consideriamo un gruppo di consumi e di spese non alimentari, abbastanza rappresentativo delle condizioni di vita della popolazione, troviamo la conferma dei dati precedenti. Posto uguale a cento la media dell'Italia dei consumi pro capite, gli indici per le regioni del Mezzogiorno pongono la Sardegna al di sopra delle altre regioni con la sola eccezione dell'Abruzzo, che di poco supera la Sardegna; ecco i dati: Sardegna 76, Molise 57, Campania 71, Puglia 71, Basilicata 52, Calabria 52, Sicilia 73, Abruzzo 78.
Esistono però forti divergenze fra le province sarde: Cagliari è quella più favorita, mentre Nuoro è la più depressa.
La regione sarda lamenta una forte emigrazione sia verso le altre regioni italiane, sia verso l'estero; ma è da notare che questo fenomeno di perdita demografica si sta rapidamente attenuando.
Pochi decenni orsono la popolazione attiva era prevalentemente occupata in agricoltura, ora presenta invece una prevalenza nelle attività industriali e in quelle terziarie e dei servizi.

Nell'intervallo fra il censimento del 1951 e quello del 1971 la popolazione addetta all'agricoltura è diminuita del 58,8 per cento, mentre quella occupata nell'industria è aumentata del 26,5 per cento.
Secondo l'ultima indagine sulle forze di lavoro effettuata dall'Istituto Centrale di Statistica, riguardante la situazione nel luglio 1976, è risultato che le persone occupate in tale data erano 23.000 nel settore agricolo e 143.000 nel settore industriale.
Anche nell'occupazione in complesso la Sardegna presenta uno sviluppo considerevole, molto superiore a quello delle altre regioni del Mezzogiorno. Infatti fra luglio 1975 e luglio 1976, contro un incremento del numero di occupati del 2,4 per cento in tutta Italia e del 2,3 per cento complessivamente nel Mezzogiorno, la Sardegna ha conseguito un aumento del 6,8 per cento (+3,5 per cento in Campania, +4.9 per cento in Puglia, -0,4 per cento in Sicilia, -2,7 per cento in Abruzzo, +1,5 per cento in Basilicata e in Calabria).
L'analfabetismo non è ancora debellato in molti comuni che presentano quote superiori ,al 10 per cento della popolazione al di sopra dei sei anni di età. Nonostante l'elevata quota di analfabeti, la Sardegna figura in buona posizione riguardo a vari aspetti culturali, come risulta dai tassi di scolarità e dagli indici di lettura.
Le carenze che si lamentano in questa regione sono ancora notevoli, sebbene esse vadano di mano in mano restringendosi. Sui 356 comuni della Sardegna, si può stabilire quanti dispongono di certi servizi essenziali e quanti ne sono sprovvisti.
Recentemente è stata creata la quarta provincia della Sardegna, Oristano, in aggiunta a quelle di Cagliari, Sassari e Nuoro.
La nuova provincia ha 149.285 abitanti con 75 comuni e una superficie di 2.630,57 Kmq (densità 57 abitanti per Kmq).
A causa dell'emigrazione, molti comuni hanno accusato una diminuzione del numero di abitanti. Nei venti anni fra il 1951 e il 1971, solo 30 comuni di questa provincia hanno registrato un aumento di popolazione, mentre 45 hanno accusato una diminuzione.
La dinamica demografica è importante perché rivela, in sintesi, le possibilità e risorse economiche presenti in loco. Il capoluogo, Oristano, ha conseguito fra il 1951 e il 1971 un incremento di popolazione del 60 per cento, mentre i comuni di Bauladu e di Boroneddu hanno avuto una perdita di oltre il 30 per cento.
Si può avere un indice abbastanza rappresentativo dello sviluppo dell'industrializzazione in Sardegna, conseguito negli ultimi anni, con taluni indici come ad esempio il consumo di carburante per gli stabilimenti industriali. Nel 1975 detto consumo è stato in Sardegna il 9,2 per cento del totale del consumo nazionale, pari all'incirca alla quota riguardante la Puglia, mentre per la Sicilia esso è solo del 3,1 per cento e in Campania del 3,3 per cento di tutta Italia.
Un'attività in forte incremento in Sardegna si riscontra nel settore turistico, che trova in questa regione elementi nettamente favorevoli: 1) ottimi alberghi, 2) magnifiche spiagge, 3) panorami di eccezionale bellezza, 4) gente cortese e accogliente, 5) numerose attrattive sportive, di caccia e di pesca, 6) clima piacevole, 7) buone strade, 8) facili collegamenti con il Continente.
Nel 1974 i clienti ospitati in Sardegna sono stati 95.701 con 714.961 giornate di presenza negli alberghi e 16.641 negli esercizi extralberghieri con 174.214 giornate di presenza.
La permanenza dei clienti ospitati negli alberghi della Sardegna è assai superiore a quella della media nazionale: contro una media per tutta Italia di 4,5 giornate, la media per la Sardegna è stata di 7,5 giornate (nel 1974). Il maggior numero di ospiti è stato registrato nella provincia di Sassari, tanto per gli alberghi quanto per gli esercizi extralberghieri.
Rispetto alla nazionalità degli ospiti è da rilevare una notevole prevalenza per la Germania e il Regno Unito. Pure notevoli sono le provenienze dalla Svizzera, dalla Francia, dal Belgio e dagli Stati Uniti.

 


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