Il problema della droga




Pompeo Rainò



Il volto vitreo, spettrale della droga si riverbera, costantemente, nell'onda limacciosa del gran fiume della storia. Voglio dire che l'uso delle sostanze stupefacenti non è un fenomeno tipico dei nostri giorni e di questa società, per altro contraddittoria e dissacrata; la tossicosi è presente in ogni epoca: ciò che cambia è la motivazione, le cause che hanno determinato l'uso indiscriminato di siffatta psicotrope.
Così Tacito negli Annali (XIV.15) racconta come nella Roma imperiale si facesse largo uso di sostanze stupefacenti: "irritamenta luxus". La causa è prontamente ravvisabile nell'edonismo nel quale quella società viveva: nella molle e dissoluta vita dell'impero era perfino largamente usato l'aborto (uno dei dilemmi dei giorni nostri) ben inteso quale espediente estetico, aborto quindi impiegato per la conservazione della bellezza, secondo la testimonianza di Ovidio: "Nunc in uterum vitiat, quae vult formosa videri Raraque in hoc aevo est quae velit esse parens".
Dopo la guerra 1914-18 si diffuse in Europa e quindi in Italia, l'uso dell'oppio e della cocaina, importato dai soldati inglesi ed americani. Qui la causa è avvertibile nel motivo di lucro; in siffatto commercio si distinse L'Inghilterra, paese dove prosperavano i filantropi ed i moralisti di mestiere. Si ebbe così nella speranza di combattere il funesto fenomeno la Legge 18-2-1023 N. 396, altrimenti detta Legge Bonomi. Successivamente nel' Sud Africa e nell'America Latina si fece largo uso della droga: anche qui la motivazione non lascia dubbi: con l'uso delle sostanze stupefacenti si voleva perseguire scopi di politica economica e di supremazia: si voleva aumentare la produttività dei minatori e dei lavoratori delle piantagioni, secondo i modelli di un'economia capitalistica in via di sviluppo ma si voleva anche, con siffatto mezzo, tenere in soggezione le minoranze negre depresse.
L'epoca nostra è caratterizzata da un ritorno massiccio all'uso delle droghe: droghe leggere; droghe pesanti. Aspetto nuovo e conturbante: la droga è usata in prevalenza dai giovani.
Dinanzi a siffatto dilagante fenomeno, più oculare e sottile si deve fare l'indagine delle "cause" onde poter vedere se la nuova Legge vale a dire la N. 685 del 27-12-1975, ha colto esattamente le ansie, le motivazioni, apportando i relativi rimedi. Non ho la pretesa di esaurire l'aspetto causale in uno studio come questo, diretto soprattutto all'angolazione giuridica del problema; inoltre non essendo io nè un sociologo nè un antropologo nè uno psicologo e meno che mai un medico, non dirò cose mie ma metterò in evidenza due delle molte interpretazioni che del fenomeno hanno dato eminenti cultori di dette scienze.
L'antropologo Carlo Tullio Altan, docente di Antropologia Culturale dell'Università di Firenze, ritiene destituita di ogni fondamento la tesi, quanto mai suggestiva, che la civiltà industriale è frustrante perché repressiva; ed i giovani dette frustrazioni vogliono compensare con difese regredite, quali appunto sono quelle della droga. Partendo da uno studio americano e rilevando l'apparente antinomia e cioè che la droga conquista gli studenti più intelligenti ed i giovani disadattati, egli così si esprime: "Entrambi questi gruppi si trovano particolarmente impreparati dalla loro formazione culturale personale a far fronte ai problemi dell'esistenza e sono spinti quindi a ricorrere ai più pericolosi strumenti di evasione. Per "cultura" gli antropologi ritengono quel "quid" che si apprende nella famiglia, nella scuola, nella società e che forma la parte massiccia della personalità e l'Altan prosegue: "(Gli studenti) avvertono l'inadeguatezza dei modelli culturali tradizionali, perché il loro livello di informazione e di intelligenza li rende più sensibili alle nuove contraddizioni della società in cui vivono". I giovani disadattati, per altro verso cioè quelli che per tante spinte sono finiti nelle città grandi e tentacolari "vedono disintegrare il loro universo culturale tradizionale". Sorge in questi due tipi di persone l'ansia, il disorientamento, a volte scoramento; vogliono uscire. Ecco la droga: essa permette loro di evadere da una realtà resasi asfittica; evasione a caro prezzo, al prezzo del disfacimento del corpo e della psiche, si, ma evasione. E si drogano.
Secondo Padre Antonio Messineo, chiarissimo scrittore della "Civiltà Cattolica" e quindi maggiore interprete del pensiero della Chiesa, la causa è: "Crisi morale che investe tutti i settori e soprattutto i giovani". Riporto testualmente il passo "Questa crisi morale è stata determinata da una politica sbagliata. In tutti questi anni di democrazia, la libertà è stata intesa come licenza ed eccessivo permessivismo e come corsa al maggior guadagno ed alla ricchezza indiscriminata. Gli scandali a tutti i livelli hanno poi accreditato la convinzione che tutto sia lecito, anche rubare, rapinare, sequestrare le persone per chiedere poi esagerati riscatti". Soffermandosi poi in particolare al fenomeno "droga", l'illustre scrittore ha affermato "la droga di cui si continua a far grande uso fra i giovani ed i giovanissimi ha in certo qual modo, sostituito in essi i vecchi ideali: non sapendo più a chi credere, credono nel potere liberatorio della droga e degli allucinogeni che danno loro la sensazione effimera del potenziamento del proprio lo e di fuggire dal tempo e dallo spazio, dalla realtà insomma".
La problematica fin qui svolta porta alla indefettibile conclusione che perché si abbia il fenomeno-droga è necessaria la convergenza di due fattori:
1.) che vi sia una crisi psico-culturale sociale;
2.) che vi sia la disponibilità di sostanze stupefacenti sul mercato.
Orbene la crisi psico-culturale sociale non può essere risolta con la Legge; se vero l'assunto dell'Alton, è necessario un tipo di educazione che non si fondi sulla sacralizzazione dei vecchi valori, a suo modo di vedere, obsoleti ed insufficienti; mentre secondo il Messineo proprio a quei vecchi valori si deve far ritorno ed anzi i cattolici sono invitati a svegliarsi ed ad agire.
Come si vede il problema è un problema politico ed in tale sede dove essere risolto. Quanto alla soluzione del secondo fattore, è compito della Legge inaridire la disponibilità della droga, chiudendo, con la sanzione, i canali di traffico; in una parola reprimere il commercio.
L'excursus legislativo vede dapprima la Legge 18-2-1923 N. 369 che puniva l'abusivo commercio di sostanze stupefacenti. Con l'entrata in vigore del codice penale del 1931, le norme anzidette furono con gli artt. 446 447 c.p. sostanzialmente abrogate, ad eccezione dell'art. 5 dove era previsto, a carico dei medici e farmacisti, che non si attenevano alla disciplina dettata per le ricette contenenti prescrizioni di sostanze stupefacenti, specifiche sanzioni. La successiva legge 15-1-1934 N. 151, che espressamente abrogava la legge N. 369 del 1923, poneva problemi di compatibilità con i su richiamati articoli del codice penale nonchè con gli artt. 729 et 730 stesso testo legislativo; il successivo Testo Unico delle L. L. S. S. del 1934 non regolava totalmente la materia, lasciando così in vigore le corrispondenti norme della legge N. 151. Si arriva così alla Legge 22-10-1954 N. 1041, legge importantissima non solo, e non tanto perché ipotizza ben 15 reati fra delitti e contravvenzioni ma soprattutto perché fissa l'oggettività giuridica della legge, quello che si usa dire lo "scopo" che si può concettualizzare nella tutela della salute dall'effetto degli stupefacenti.
La Giurisprudenza ha sempre ritenuto che la semplice "detenzione" di sostanze stupefacenti ipotizzi reato, anche quando la detenzione abbia luogo per uso proprio, al di fuori dei casi consentiti dalla legge (valga per tutti Cass. 3-4-1968); per la prima volta così viene condannato il tossicofilo. Come si sia pervenuti a siffatta conclusione è presto detto: l'inciso contenuto nell'art. 6 quarto comma.. "comunque detenuto" deve essere interpretato "per qualsiasi titolo, o finalità" con espresso riferimento al rapporto di signoria della persona sulla droga. Siffatta interpretazione non ha invero risolto i dubbi che esistevano in dottrina e cioè che l'art. 6 non ha mai inteso punire i tossicomani, cioè coloro che detenevano la droga per uso proprio. Per la dottrina l'inciso "comunque detenuto" va sempre inquadrato nell'attività commerciale, spostando così l'asse dal soggetto all'oggetto.
Il processo ermeneutico, del resto, affianca una siffatta interpretazione. Invero è certo che la legge del 1923 N. 2534 prevedeva soltanto la detenzione per il commercio; il codice penale puniva - esclusivamente -la detenzione "allo scopo di farne commercio"; dubbio è se il T. U. 27-7-1934 N. 1265 abbia mai inteso incriminare la detenzione per uso proprio. Ma un tal problema oggi non ha più importanza, in quanto la nuova legge, quella del 22-12-1975 N. 685 non punisce esplicitamente il tossicomane, sicchè ci è stato dato di vedere intervistare liberamente un tossicofilo in televisione in una delle trasmissioni televisive del mese di Gennaio 1976. Esattamente nell'art. 80 essa legge così recita nel 1. capv. "Del pari non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene modiche quantità delle sostanze innanzi indicate per farne uso personale non terapeutico".
La rinunzia dello Stato alla potestà punitiva indubbiamente è giustificata dalla politica criminale; quest'ultima si muove su due direttrici:
A) ricupero del tossicomane e reinserimento dello stesso nel consorzio sociale;
B) lotta più serrata, questa volta con l'ausilio fattivo della vittima, alle persone, organizzazioni criminali che illecitamente producono, vendono, detengono sostanze stupefacenti o psicotrope.
Quanto al primo punto c'è da dire che il tossicomane non ha più preoccupazione a nascondere il suo vizio non solo, ma sol che lo voglia trova lo Stato pronto ad aiutarlo a liberarsi dal terribile male. Di qui la creazione di Centri Medici o di Assistenza Sociale (art. 90) nei quali il tossicofilo può curarsi; ma può scegliersi altri luoghi di cura, addirittura il medico curante. Solo in caso di rifiuto interviene il tribunale, il quale dispone il ricovero ospedaliero del tossicomane; se assolutamente necessario dispone cure ambulatoriali o domiciliari (art. 100). Quanto al secondo punto, la Legge N. 685 commina pene severissime; la stessa norma strumentale è piegata alle esigenze di una rapida e sicura sanzione. A tal proposito è rilevante l'art. 82 per il quale il tossicomane non punibile ha il dovere di deporre, come testimone, nei processi relativi a fatti che possono portare alla incriminazione dei trafficanti di droga. Si ha cioè una deroga al principio sancito dall'art. 348 C. P. P. che vieta all'imputato dello stesso reato o di un reato connesso (art. 45 C. P. P.), ben inteso connessione materiale e non formale, di deporre come teste nello stesso reato.
C'è da chiedersi soltanto se siffatte innovazioni integrino quei mezzi eroici con i quali il Legislatore del 1975 spera di ferire mortalmente l'idra della droga. Si è veramente scettici anche perché non pare, anche se ancora brevi sono i tempi di attuazione, che siano pronte ed efficienti le infrastrutture, senza le quali, la Legge in vigore non ha nè senso nè fondamento; per es. non pare che siano stati a tutt'oggi istituiti quei "centri medici", vere monadi del sistema della Legge; nè pare che siano stati formati gli altri organismi collaterali, vicari della norma penale. Ma vi è una domanda di fondo: è esatto il principio della non punibilità del tossicomane? O non per caso abbiamo creato, così operando, nuovi canali di smistamento della droga? Gli stessi tossicomani, protetti dallo scudo della impunità, possono trasformarsi in corrieri della droga, favorendo così l'attività dei trafficanti, che a mezzo di siffatti drogati, venderanno sempre più al minuto, esponendosi a meno rischi ed utilizzando un campo di azione, altrimenti chiuso, almeno alle droghe pesanti.
Ed ancora: quale collaborazione può dare una persona, nell'identificazione degli spacciatori di droga, se essa persona ha bisogno costantemente dello psicotrope, essendo allo stesso asservito e quindi della persona che glielo somministra? Senza dire delle inesorabili regole in uso in detta "societas sceleris" contro i presunti delatori.
Dove voglio arrivare con siffatte perplessità? Che la Legge del 1975 N. 686 è veramente una legge pregevole per le finalità che L'ispirano, per il suo tecnicismo, per il suo momento nomogenetico; tuttavia da sola non potrà eliminare il grave flagello sia perché essa presuppone una bonifica in campo sociale, affidata al potere politico, sia perché richiede, nel suo dinamismo, la presenza di organismi collaterali, operanti in perfetta sincronia con essa norma. Vale a dire che siffatta legislazione, perché raggiunga i suoi obbiettivi, abbisogna di componenti eterogenee.
Avverto qui la sua debolezza. Tuttavia è da augurarsi che siffatta legge raggiunga ugualmente i suoi effetti; ritengo però che, ancora una volta, il terreno migliore per combattere il triste fenomeno non sia la norma penale; la droga si combatte più efficacemente nel campo della morale. Anche in questa materia ed in questa nostra era, valida è la domanda che Orazio si poneva: Quid leges sine moribus?
Sono con Padre Messineo quando invoca il ritorno ai valori tradizionali, eterni dell'Uomo, e più specificatamente ai valori evangelici. Si cercano, specie da parte dei giovani, i paradisi artificiali, le visioni colorate che stemperino il grigio della vita quotidiana; ebbene ritrovino i giovani le fonti francescane, ascoltino il canto della perfetta letizia di San Francesco; ecco un sicuro rifugio "dagli strazi del vivere", come dice il Flora.
Ma chi si ricorda più del Poverello di Assisi?

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