Solo ora si scopre
che la politica del settore è stata fallimentare: cresce il deficit
alimentare, non trova slancio il piano-carne, le colture irrigue ci trovano
in ritardo rispetto a paesi mediterranei, come la Spagna, la Tunisia,
la Grecia, e soprattutto Israele, che hanno avviato da tempo una temibile
azione di concorrenza.
Quattro milioni
di ettari di montagna e sette milioni di ettari di collina condizionano
sempre le possibilità di sviluppo dell'agricoltura meridionale.
Del resto, l'ottanta per cento del suolo nazionale è montano
e altocollinare. E se un terzo del Veneto e tutta la fascia orientale
del Polesine che si allarga lungo la Via Romea sono indifendibili perché
al di sotto del livello del mare, Potentino, Calabria, Irpinia, Sannio,
Cilento, Gargano, aree centrali dell'Abruzzo-Molise, della Sicilia,
della Sardegna, già perseguitate dallo "sfasciume idrogeologico",
al quale si è posto un precario riparo, si trasformano in un
deserto con le piogge eccessive o con le improvvise siccità.
L'agricoltura meridionale soffre ancora di mali antichi. Eppure, ci
pare ormai dimostrato che, al di là di un certo limite, lo sviluppo
industriale nel Mezzogiorno ha dato risultati tutt'altro che soddisfacenti.
Industrializzare l'agricoltura poteva essere un'alternativa valida.
Non è stato fatto, e ne paghiamo le conseguenze. Perché?
Fin nell'immediato dopoguerra, l'Italia era un Paese precapitalistico,
col quarantuno per cento di popolazione agricola. Oggi, l'indice di
occupazione nel settore primario pare debba stabilizzarsi intorno al
quindici-diciotto per cento. Abbiamo, cioé, meno di cinque milioni
di lavoratori agricoli propriamente detti. L'esodo agricolo, che è
stato un fatto positivo, oltre un certo livello può dare risultati
assai negativi. Creare le condizioni perché una parte della popolazione
possa continuare a vivere in zone di campagna, trovandovi la propria
convenienza, rappresentava e rappresenta dunque un obiettivo.
Nei primi anni della sua presidenza, Roosevelt dovette affrontare problemi
che, in fondo, non erano differenti dai nostri. E lo fece lasciandosi
guidare dal principio dell'utilità pubblica. Non solo costruì
dighe, ma piantò foreste, strutturò suolo, regolò
fiumi, aprì strade e ferrovie, rilanciò il settore primario.
Poi, come nella vallata del Tennessee, sorsero le grandi industrie.
Noi abbiamo seguito il cammino opposto. Abbiamo forzato la trasformazione
dell'economia meridionale, e in un certo senso era giusto che fosse
così: ma creare doppioni di industrie settentrionali, o dipendenze
di industrie del triangolo del Nord, che poi entravano in crisi ad ogni
muover di vento di crisi; o consentire la nascita di complessi industriali
che, in pratica, hanno visto trasferirsi a sud vecchie macchine (le
nuove sono finite a Nord, trasformazioni e ristrutturazioni realizzate
oltre il Mezzogiorno con quattrini che erano destinati al Mezzogiorno
quasi non si contano più), o macchine che producevano merci non
collocabili sui mercati perché non lo consentiva l'organizzazione
distributiva delle case madri, è stata la grande illusione ottica
della seconda metà del nostro secolo.
Non a caso, si discute ancora di un quinto centro siderurgico, quello
di Gioia Tauro, destinato a consegnare alla Cassa Integrazione migliaia
di operai dopo un pò di annidi prevedibile deficit. Non a caso,
stiamo pagando gli errori commessi dall'industria di Stato, e dagli
industriali privati - protetti dallo Stato, come i chimici - che hanno
succhiato o sperperato miliardi, senza dare una seria contropartita
nel campo dell'occupazione e dello sviluppo economico-produttivo del
Sud. Miliardi, che sono stati stornati dal settore primario, dove si
è rimasti al settore "artigianale", con vasta frantumazione
della terra, con gli scompensi produttivi, con le contraddittorie direttive
(premi per impianti viticoli, poi premi per l'abbattimento degli stessi
impianti; premi per capo di bestiame abbattuto, poi premi per capo di
bestiame acquistato; massacro finanziario con la politica dei contributi
agricoli unificati, e tasse opprimenti e indiscriminate; colture cerealicole,
bieticole e ortofrutticole lasciate allo sbando).
Risultato clamoroso, ma non inatteso, le "guerre" condotte
da paesi aderenti alla Comunità Economica Europea, (la Francia
insegni per tutti); i ricatti di economie esterne (la Tunisia, in cambio
di un lasciapassare condizionato per la pesca, riversa sui mercati italiani
ed europei oli di media qualità e pessimo vino); la concorrenza
di economie sottosviluppate (Grecia, Spagna, Algeria, Jugoslavia), e
di economie agguerritissime (Israele, in particolare). Altro risultato:
in nostro sbilancio alimentare, il deficit che cresce di anno in anno,
annullando i vantaggi di altri settori produttivi, quali, ad esempio,
quello del turismo. Noi importiamo carne (sarebbe più corretto
dire: c'è un oligopolio che importa carne), e carne di lusso
(i quarti posteriori), e importiamo derrate per migliaia di miliardi
di lire l'anno, mentre disponiamo di terreni adatti agli allevamenti:
l'intero Mezzogiorno potrebbe essere battuto da milioni di zoccoli,
è in grado di accogliere razze d'allevamento intensivo ed estensivo,
pascoli e prati-pascoli, con le coltivazioni foraggere atte a creare
un ciclo economico-produttivo completo. Ma, alla base di tutto ciò,
sta l'accorpamento dei terreni. Che si ottiene attraverso le forme cooperative,
o attraverso la costituzione di società imprenditoriali; difficile
creare le prime, perché il meridionale è essenzialmente
individualista, e abituato all'economia famigliare, di sussistenza;
non agevole creare le seconde, perché occorrerebbero grandi capitali
e la garanzia contro il rischio: i capitali potrebbero essere ottenuti
in parte dalla Cassa per il Mezzogiorno (che tuttavia è lentissima
negli interventi), mentre i rischi resterebbero sempre come una spada
di Damocle, dal momento che i dieci o dodici importatori all'ingrosso
di carne, che guadagnano miliardi al mese, godono di protezioni, e si
proteggono a vicenda (stessa storia ,degli importatori di caffé),
pagano quattro soldi di tasse, dominano i mercati italiani, perpetuano
lo stato di diseconomia.
L'agricoltura è stata la grande occasione mancata del Mezzogiorno.
Il miraggio del salario e della tuta blu ha attratto i contadini emigranti;
e salario e tuta blu potevano ottenersi proprio lavorando, con metodi,
tecniche e macchine moderne, sulla terra.
Il fondatore dell'agricoltura industrializzata, Arthur Young, diceva
che l'agricoltura dipende da due fattori: dal buon Dio, e dalla politica.
Voleva chiarire, cioé, che il settore primario è in mano
all'imperscrutabile andamento delle vicende stagionali e alla politica
che a questo campo si applica. E' impossibile programmare il primo termine
del binomio younghiano, come dimostrano del resto gli eventi di questa
stramba estate. Ma non è più possibile non proporsi un
serio e responsabile esame di coscienza per quel che riguarda il secondo.
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