Analisi di un'economia in crisi




Guido Carli



La dipendenza della nostra economia dal commercio estero si commisura ad oltre la metà del reddito nazionale lordo; la composizione delle nostre esportazioni per categorie merceologiche è uguale a quella media dei paesi industrializzati dell'OCSE; la loro distribuzione geografica tende ad aprirsi verso un numero crescente di paesi: nel '74 e nel '75 le nostre esportazioni verso i paesi dell'OPEC sono aumentate più della media di quella dei paesi industriali. Cinque sesti del reddito lordo affluiscono al lavoro dipendente; il risparmio netto del Paese si forma soltanto presso le famiglie e il suo trasferimento agli utilizzatori si compie in misura preponderante mediante strumenti creditizi espressi in moneta. Costringere questa economia entro schemi storicamente condannati o modelli in essere nei paesi dell'Europa orientale o in quelli che ad essi si ispirano produrrebbe una minacciosa instabilità politica; d'altronde quegli stessi paesi non ne sono immuni. Ma nessuno in Italia lo ha proposto, ne lo propone.
Negli ultimi anni l'attività delle imprese è stata sostenuta dalla spesa del settore pubblico in una proporzione in rapido aumento. I contributi agli investimenti e i contributi alla produzione sono passati da 200 miliardi nel 1954 a 4.600 miliardi nel 1975 aumentando 23 volte. I saggi di incremento sono passati dal 12 per cento nel periodo 1955-59 al 23 per cento dal 1965 al 1970 ed hanno in seguito raggiunto il 43 per cento, se si includono le concessioni di credito alle aziende autonome in ripianamento dei disavanzi. Gli apporti ai fondi di dotazione e ai fondi di rotazione, le assunzioni di partecipazioni pubbliche hanno mostrato anch'essi una forte accelerazione. Nel 1975 la spesa pubblica complessiva diretta ai settori produttivi, pubblici e privati, finanziari e non finanziari, si è proporzionata al 18 per cento del valore aggiunto: ciò mostra che il sistema produttivo nella sua compagine non è in condizione di realizzare la crescita del valore aggiunto necessaria per distribuire salari e profitti e sopportare inefficienze e rendite.
In questi anni le imprese non sono rimaste inerti: nel quinquennio 1970-74 gli investimenti di capitale per addetto nel settore manifatturiero sono aumentati rispetto al quinquennio precedente di circa il 32 per cento; mentre la quota degli investimenti in impianti, macchine e attrezzature sul totale degli investimenti fissi industriali è passata dal 58 per cento negli anni 1965-69 al 64% circa nel periodo 1970-74; nondimeno l'occupazione industriale è diminuita. L'allargamento dello stock di capitale ha reso possibile congrui aumenti di produttività con punte elevate in taluni settori; ma, in tutti, la spinta salariale si è presentata in modo indipendente dallo sviluppo della produttività. Poiché i tassi di crescita salariale si sono livellati settorialmente. il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto di più dove minore è stata la produttività. Ne è derivata per il sistema nel suo complesso una flessione dei redditi non da lavoro: posti uguali a 100 nel 1970, essi sono risultati pari a 72 nel 1975. Maggiore è la contrazione dei profitti lordi se si tiene conto dell'altezza degli interessi passivi.
L'intervenuto deprezzamento del cambio consente di trasferire sui prezzi all'esportazione gli aumenti dei costi unitari del lavoro; ma accelera il moto inflazionistico; la generalizzata indicizzazione dei redditi da lavoro annullerà in gran parte gli effetti. Resta quindi immutata l'esigenza che il settore industriale mantenga con altri mezzi condizioni di competitività di prezzo sia in Italia sia all'estero; ciò avviene accrescendo la ampiezza del capitale ed accelerando l'innovazione tecnologica, ma occorre anche il concorso sotto diverse forme del lavoro e dell'ambiente esterno all'impresa; l'attuale compressione dei margini di profitto esclude che condizioni competitive possano essere ottenute agendo dall'interno delle imprese; queste sono sempre più dipendenti dal credito e dalla spesa pubblica nel finanziamento degli investimenti. L'estensione assunta da entrambe queste fonti esterne ha reso palesi le contraddizioni di un siffatto sistema: la spesa pubblica finanziaria, in disavanzo compete con la domanda di credito delle imprese sospingendo a livelli inusitati il costo del capitale; nella misura in cui riescano ad ottenere credito, cresce il grado di indebitamento delle imprese e decade la loro propensione ad investire.
In un'economia nella quale le decisioni di svendita della quasi totalità del reddito sono affidate a milioni di individui liberi di cambiare l'orientamento dei consumi e di soddisfarli comprando in patria o all'estero, possono sopravvenire congiunture che mettono in crisi non soltanto singole aziende ma interi rami produttivi e pongono gravi problemi di radicale riconversione indipendentemente da errori nelle decisioni di investimento. Ne derivano conflitti tra le esigenze di quanti forniscono indicazioni al mercato con le proprie decisioni di spendita e i bisogni di coloro i quali lottano per la difesa del posto di lavoro; non di rado si tratta delle stesse categorie sociali.
Se le organizzazioni sindacali in luogo di difendere la maggioranza indifferenziata dei lavoratori, proteggono minoranze di volta in volta isolate nel sistema produttivo, il sistema muove verso una staticità di strutture che non si concilia con l'ampiezza del potere discrezionale concesso ai consumatori in un'economia aperta al resto del mondo. Questa cristallizzazione si è riflessa sia nella minore attitudine della domanda finale interna ed estera ad attivare modifiche dell'offerta interna, sia nella incapacità del sistema di accrescere la produttività in misura corrispondente agli aumenti salariali.
In questa condizione si accresce la responsabilità delle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori verso la collettività, perché dall'incontro delle loro volontà nasce una quota non piccola del disavanzo del settore pubblico; si conferma la necessità che gli accordi, sia quando concernano le imprese pubbliche, sia quando concernano quelle private, si ispirino ai medesimi principi ed appare indispensabile l'indicazione da parte del Governo dei limiti entro i quali debba restare la contrattazione salariale e dei modi secondo i quali debba avvenire l'adattamento delle entrate. Non è possibile mantenere la dimensione del disavanzo pubblico fuori del controllo degli organi rappresentativi e consegnarlo al sistema monetario e creditizio perché provveda; il solo modo di provvedere che esso ha, è negare il credito alla produzione, per dilatare quello allo Stato, ovvero concederlo a tutti, attraverso la moltiplicazione dei segni monetari.
Restituire al Parlamento il controllo globale della spesa pubblica secondo lo spirito della Costituzione richiede che si delimiti il campo entro il quale la contrattazione salariale pubblica e privata incide sul disavanzo e quello entro il quale operano regioni, province e comuni.
L'autonamia delle amministrazioni territoriali non soffrirà limitazioni se si consentirà loro di trarre dal tributo il finanziamento delle spese eccedenti quelle indicate dal Parlamento. Analoghe considerazioni si estendono ai servizi pubblici ed alle iniquità nascenti dalla loro somministrazione a prezzi non commisurati ai costi.
Ricomporre in un sistema unitario l'azione del Parlamento, del Governo e delle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori costituisce la condizione necessaria affinchè una politica non autoritaria di distribuzione del reddito si accordi con una struttura produttiva coerente con l'esigenza della difesa dell'occupazione in un'economia senza frontiere.
Ciò pone il problema della riconsiderazione della disposizione legislativa secondo la quale 20 anni orsono le imprese pubbliche furono separate da quelle private agli effetti dell'inquadramento sindacale. Il mantenere la separazione nell'attuale contingenza induce il sospetto che si intenda accordare una preferenza ad un settore rispetto all'altro; mentre si succedono i convegni nei quali si afferma la volontà di difendere l'imprenditorialità privata. Lo stesso dialogo sindacale sull'investimento soffre per effetto di questa dicotomia: una organizzazione non essendo in possesso dell'informazione concernente quanto accade nell'ambito dell'altra. La consultazione del Parlamento con le forze economiche diverrebbe più concludente se vi fosse una rappresentanza unitaria delle imprese indipendentemente dall'appartenenza dei capitali azionari al settore pubblico o a quello privato.
La richiesta di una più ampia informazione sull'investimento è legittima da parte delle organizzazioni sindacali rappresentative delle classi lavoratrici sulle quali ricadono le decisioni, ma è similmente legittima da parte di quanti provvedono i mezzi con i quali sono compiuti i finanziamenti. Assai opportunamente è stata affermata la necessità di ricondurre una quota maggiore del finanziamento delle imprese al contatto diretto con i risparmiatori nel mercato finanziario limitando l'intermediazione bancaria sotto forma di raccolta di depositi. Ciò richiede che il risparmiatore sappia di più; di qui la necessità di accogliere le forme con le quali nei mercati finanziari più organizzati l'impresa comunica l'informazione sulla propria 'condizione. Ma essa deve avvenire ad opera delle imprese del settore pubblico e privato; deve avvenire nei confronti del Parlamento quando sia richiesto l'aumento dei fondi di dotazione degli Enti; deve avvenire nei confronti del pubblico in generale dal quale direttamente o indirettamente viene attinta la quota di gran lunga maggiore dei mezzi finanziari che affluiscono alle imprese.
Il nostro paese si colloca in posizione intermedia, non avendo ancora compiuto l'aggiustamento alle ragioni di scambio risultanti dal rincaro delle materie prime e degli alimentari e dalla quintuplicazione del prezzo del petrolio. Esso deve intendere che negli attuali equilibri internazionali non vi è altra scelta al di fuori di pagare le importazioni con una quota più elevata di esportazioni; nella migliore delle ipotesi ciò richiede che gli incrementi di reddito devono essere destinati per un certo periodo alla ricostituzione dell'equilibrio dei conti con l'estero. Questi incrementi sono oggi ancora possibili come testimonia l'andamento di lungo periodo della produzione industriale, ma sono potenzialmente più limitati del passato e richiedono per realizzarsi che il ritmo di crescita della spesa pubblica e delle entrate tributarie ritorni sotto il controllo delle autorità e sia tale da non espellere parte della domanda delle imprese dal mercato del credito; ed inoltre che le politiche economiche non sospingano il saggio di crescita reale al di sopra di quello reso possibile dall'attuale dotazione settoriale di capitale e dai vincoli posti al suo pieno sfruttamento. Entrambi questi fattori non presentano valori immutabili nè nel lungo nè nel breve periodo. ma la loro modifica richiede il ristabilimento delle condizioni interne ed esterne alle imprese alle quali ho accennato.
Solo se l'aggiustamento della bilancia dei pagamenti si compie entro il quadro di riferimento delineato acquista significato economico e quindi utilità il ricorso al finanziamento internazionale. Il nostro interesse coincide con quello dei nostri alleati quando si afferma che non mancheranno possibilità di accesso al credito internazionale alla condizione che il nostro paese presenti programmi dettagliati atti o convincere che esso muove verso un risanamento dell'economia. Ma gli interessi divergono quando si pongono condizionamenti politici offensivi della dignità nazionale. Nessun risanamento dell'economia potrebbe avvenire senza la corresponsabilità dei cittadini e delle loro organizzazioni.
Senza avvicinare il rapporto fra popolazione attiva e popolazione totale a quello in essere nei paesi industriali più progrediti sarebbe impossibile dare lavoro ai disoccupati, ai sottoccupati, alle donne, a giovani; ma sarebbe impossibile ridurre il divario esistente senza innalzare il rapporto dell'investimento lordo al reddito al di sopra di quello vigente nella generalità dei paesi industriali. Quand'anche riuscissimo ad accrescere l'efficienza delle strutture pubbliche e private, a restringere l'area delle distorsioni parassitarie, a rinnovare l'apparato produttivo del paese, inserendo l'Italia nel processo di avanzamento scientifico e tecnologico in atto su scala mondiale, un aumento dell'investimento dell'indicato ordine di grandezza sarebbe difficilmente attuabile senza integrare le risorse disponibili all'interno con un apporto dall'esterno. Il nostro paese si colloca al 23° posto nella graduatoria del reddito per abitante: sarebbe irrealistico immaginare di liberare risorse esclusivamente congelando il livello dei consumi durante un lungo periodo di tempo. L'apporto esterno potrebbe essere ottenuto in una trattativa con organizzazioni pubbliche e private dei paesi industriali dell'occidente, nella quale ci collocheremmo in posizione di dignità, se fossimo in condizioni di dimostrare di aver intrapreso un programma di redistribuzione del reddito fra le diverse destinazioni, sostenuto sul piano politico dall'accordo dei partiti democratici.
Che le imprese siano indebitate non è in se un fenomeno aberrante; al contrario, la legittimazione stessa dell'impresa si fonda sulla capacità che essa mostra nell'aggregare risorse esterne in combinazioni produttive atte ad offrire prodotti commerciabili. Ma quando l'autofinanziamento si esaurisce, la funzione allocativa ricade interamente sulle istituzioni finanziarie; queste perdono però la capacità di esercitarla, allorchè l'indebitamento raggiunge livelli tali che la loro stessa sopravvivenza dipende dalle sorti dell'impresa. Quanto più il meccanismo dei prezzi viene privato della funzione di orientamento, tanto più le imprese mancano alla propria volta di strumenti di navigazione. Le istituzioni creditizie esplicano una funzione di interesse sociale, soltanto quando operano con imprese dotate di siffatti strumenti. Il processo di allocazione razionale delle risorse riesce impossibile quando non sussiste l'equilibrio dei conti economici.
L'estensione assunta dai meccanismi preferenziali nella distribuzione del credito in luogo di correggere le distorsioni per causa delle quali è stata invocata è divenuta essa stessa causa di distorsioni. Sono ingranaggi dei meccanismi preferenziali: l'appropriazione del credito ala parte del settore pubblico attraverso la coercizione direttamente esercitala sui flussi finanziari o attraverso quella indotta dalla sua insensibilità al costo del credito; il ritardo con il quale il medesimo settore paga i beni e servizi acquistati, suscitando una quota nascosta di debito pubblico, sulla quale non vengono corrisposti interessi e che costringe le imprese a surrogarsi agli intermediari finanziari; il credito agevolato nelle sue ormai inestricabili varietà di forme.
L'ampliamento dei meccanismi finanziari preferenziali restringe l'area nella quale le istituzioni creditizie esplicano la propria funzione di selezione delle domande di credito, offre motivazioni a comportamenti irresponsabili dei dirigenti, cresce l'interesse delle forze politiche ad asservirli. Singoli imprenditori industriali possono reagire cercando di inserirsi più profondamente nei circuiti preferenziali. Ma questi comportamenti non corrispondono all'interesse della categoria nel suo insieme, che è quello di spezzare l'accerchiamento che si è andato rafforzando in questi anni, riducendo l'area dei crediti sussidiati, ripristinando meccanismi di sanzione economica e finanziaria per le imprese pubbliche e private e le produzioni non efficienti.
Le parti sociali operanti nell'industria, nei confronti del settore creditizio, hanno interessi largamente coincidenti. Interessa loro che le istituzioni creditizie siano esse stesse imprese efficienti, cioè operanti con un loro equilibrio dei conti economici, quindi più indipendenti dalle pressioni politiche; in definitiva, capaci di svolgere con responsabilità piena la funzione allocativa. L'industria ha interesse ad operare sul piano finanziario entro una cornice chiaramente definita: una legislazione mutevole, di incerta interpretazione, un comportamento sussultorio del settore pubblico nella richiesta di finanziamento, nei modi di presentarla nei mercati, una politica monetaria e creditizia instabile sono altrettanti elementi di danno per il complesso delle forze operanti nell'impresa.
Credo inevitabile nell'attuale assetto dei mercati che le imprese debbano seguitare ad operare con un alto carico di indebitamento; diviene così più importante il problema del suo costo; in un prossimo futuro mi propongo di presentare suggerimenti. Ma il livello raggiunto dall'indebitamento rispetto ai capitali investiti non può non indurre ad un riesame del rapporto fra gli enti finanziari e le imprese, con il fine di ricercare soluzioni atte a mantenere l'autonomia di queste ultime; fra, le soluzioni si pone certamente l'introduzione nel nostro mercato finanziario di strumenti idonei a consentire l'acquisizione diretta di capitali da parte delle imprese.
L'orientamento dell'investimento produttivo verso impieghi capaci di estendere la nostra presenza nei mercati internazionali allentando il vincolo esercitato dalla bilancia dei pagamenti potrebbe essere avvantaggiato dall'acquisizione di conoscenze dedotte, da un progetto di ricerca sulle strutture dei mercati dei fattori e dei prodotti, posto in atto in comune dalle Confederazioni, secondo esperienze compiute in altri paesi, nella libertà di ciascuna di interpretare i risultati.
Incombe sulla ripresa produttiva la minaccia che venga soffocata in un prossimo futuro da un'accelerazione dell'inflazione; i focolai accesi nel nostro sistema non hanno sprigionato tutti gli impulsi racchiusi. In luogo di invocare nuovi interventi in sostegno dell'attività produttiva. mi sembrerebbe preferibile spostare le forze espansive verso l'investimento; ma ciò sarebbe impossibile se non si spegnessero i focolai di inflazione. Se le parti sociali non collaboreranno per il raggiungimento di questo obiettivo, l'intero peso cadrà sulla politica monetaria e ne seguiranno provvedimenti restrittivi più aspri.

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