Vivere con l'inflazione




Gianni Agnelli



Vivere con l'inflazione non significa accettare passivamente le spinte indifferenziate e rimanere neutrali rispetto ai prelievi che venivano poi effettuati sulla principale fonte di reddito disponibile, quella industriale.
Possiamo essere d'accordo che le cause dell'inflazione sono oscure, aggrovigliate o inestirpabili come le radici della malerba che infesta i campi. Se pare assodato che ben poco ci sia da fare per eliminare l'inflazione dall'economia, parecchio si può fare invece per tenerla sotto controllo. Ciò significa non farle raggiungere il tasso a due cifre oltre il quale la manovra delle misure dirette a reprimere gli stimoli inflazionistici diventa sempre meno efficace.
L'esperienza del passato, non solo nostra ma di tutti i paesi industrializzati, indica senza possibilità di errore che l'inflazione rimane entro termini moderati quando gli investimenti sono elevati sia nell'espansione della base produttiva, sia nei rinnovamenti tecnologici, sia nella ricerca e sviluppo; quando il credito è adeguato alle necessità industriali e commerciali; quando la produttività del lavoro è elevata; quando la mobilità dei fattori di produzione permette un continuo adeguamento dei settori industriali alla domanda e ai prezzi del mercato interno, al mercato internazionale; quando la Pubblica Amministrazione èin grado di aggiornare le economie esterne; quando la spesa pubblica è diretta a soddisfare bisogni sociali e approntare le infrastrutture civili nella misura richiesta dalla qualità di vita della collettività nazionale e, infine, quando i contribuenti adempiono, proporzionalmente alla loro capacità, il loro dovere fiscale.
Certamente non è facile mantenere in equilibrio tutte queste componenti soprattutto in un paese come l'Italia che, di recente industrializzazione, dipende dalla componente estera molto più degli altri suoi partners occidentali; ma i governi e la politica economica ci sono proprio per questo. In Italia il primo gruppo di variabili, escludendo sin dall'inizio quelle relative alla Pubblica Amministrazione, hanno funzionato abbastanza bene fino agli inizi degli anni '60. Poi la concentrazione degli squilibri creati dallo spontaneismo dello sviluppo degli anni precedenti, la mancanza di una politica economica e l'avvio della politica di favorire rendite e parassitismi soprattutto del settore pubblico, provocarono la rottura di meccanismi di sviluppo economico ed industriale senza che altri, almeno di eguale efficacia, ne fossero approntati o proposti.
La nuova crisi della fine degli anni '60 fu ben più profonda della precedente per la presenza di attivi, anche se confusi, estremismi ideologici diretti a rifiutare l'industrializzazione ed il cosiddetto consumismo. Con essa avvenne un fatto nuovo, in consonanza con gli altri paesi del mondo occidentale, ma in dimensioni più ampie: un aumento del costo del lavoro per unità prodotta di gran lunga superiore ad ogni possibile aumento della produttività e nello stesso tempo un deterioramento delle relazioni industriali a tutti i livelli.
Tale andamento si è scaricato immediatamente sui costi aziendali, determinando una crisi del profitto delle imprese, aggravatasi continuamente fino ad oggi. Di conseguenza esse hanno dovuto contare sempre più sul credito in tutte le sue forme, da quello agevolato a quello a breve, per assicurare nuovi investimenti e per far fronte alle pesanti passività di gestione. Il crescente indebitamento ha provocato anche, la, riduzione relativa del capitale di rischio delle imprese e quindi la loro crescente incapacità a reagire psicologicamente alla concorrenza.
Parallelamente il deficit consolidato del bilancio pubblico e degli enti previdenziali cominciava a crescere in progressione geometrica per i sempre maggiori impegni che lo Stato andava assumendo nel campo delle spese correnti dei trasferimenti, soprattutto per l'incremento notevole dei trattamenti previdenziali e pensionistici. L'accumulazione di tali squilibri, proprio per effetto del moto esponenziale che essi hanno assunto dagli inizi degli anni '70, sono diventati esplosivi e praticamente incontrollabili.
A queste fonti di inflazione si sono aggiunti, inoltre, tre anni la, gli stimoli fortissimi provenienti da una imprevista riorganizzazione, a livello internazionale, della disponibilità delle materie prime e delle fonti energetiche.
A questa situazione il sistema socio-economico avrebbe dovuto rispondere con un rinnovamento delle strutture industriali più rapido di quanto le imprese di norma attuano. Cioè la struttura politica avrebbe dovuto reagire offrendo alle strutture produttive un più alto grado di elasticità, quella elasticità necessaria ad ogni organismo per riprendere lo slancio verso nuovi traguardi. Questi potevano magari essere il nuovo modello di sviluppo, che confusamente ci è stato raccomandato dai sindacati, ma che assai più chiaramente viene disegnato dalle indicazioni sulla nuova divisione internazionale del lavoro, che ci pervengono dalle agenzie delle Nazioni Unite ed a cui dovremmo stare assai più attenti di quanto non si faccia.
La risposta dei nostri partners sociali è stata invece del tutto opposta.
La marcia accelerata verso l'egualitarismo e il garantismo che premia la negligenza contro l'operosità, ha portato ad un irrigidimento quasi completo della mobilità del fattore lavoro. Sono state respinte le forme di garanzia proposte in caso di disoccupazione o di sospensione del lavoro per richiedere il mantenimento del posto di lavoro indipendentemente dalla economicità dell'attività di produzione. Purtroppo i grandi partiti hanno sostenuto e sfruttato in senso clientelare tale indirizzo. Qualcuno può vantarsi di avere un livello ufficiale di disoccupazione anormalmente basso solo perché il livello degli occupati include una sacca rilevante di disoccupazione.
Questa, però, non è che una forma di corporativismo e non si compreso che come conseguenza di medio periodo non poteva non ridurre le possibilità di nuova occupazione nel settore industriale. Essa, inoltre, ha reso impossibile o molto pii., lento il risanamento economico delle imprese; in molti casi ne ha accelerata la crisi definitiva.
I salari nominali, pur in queste anomale condizioni, hanno continuato a crescere ad un tasso persino superiore al tasso di inflazione. Infatti si sono sommate in modo perverso le rivalutazioni automatiche di adeguamento alle variazioni del costo della vita, previste nei recenti negoziati interconfederali, con le pattuizioni a livello nazionale ed aziendale che si sono moltiplicate in frequenza ed accresciute in dimensione.
A questo punto devo accennare alle critiche che da molte parti, anche recentemente, sono state rivolte alla conclusione del negoziato sulla scala mobile. Esse sono state espresse quasi sempre da chi non ha esperienza di trattative sindacali e non si rende conto di quanto queste siano dure e che cosa significhi romperle ed assumersi la responsabilità di tutta la conflittualità successiva e delle relative conseguenze sulle imprese.
Alle critiche rispondo che sono tuttora convinto della validità sociale della scala mobile come difesa dei redditi più bassi e come strumento per ridurre il livello delle tensioni sulle relazioni industriali. Credo che dei risultati obiettivi si sono avuti, anche se speravamo che il sindacato comprendesse meglio lo sforzo da noi compiuto verso forme di relazioni industriali più compatibili con le esigenze delle imprese. Il principio è poi degenerato, soprattutto in altri settori non appartenenti all'attività industriale. Credo però che recentemente i sindacati hanno ben compreso che con una inflazione crescente. la naturale spinta al mantenimento dei salari reali da parte di tutte le categorie tende ad andare oltre gli stessi limiti della svalutazione, talvolta nella illusione egoistica non soltanto di mantenere il potere di acquisto reale ma di accrescerlo a scapito degli altri.
Purtroppo gli aumenti dei salari nominali sono stati maggiori proprio nell'anno nel quale l'aumento del prezzo internazionale del petrolio e delle materie prime avrebbe richiesto un assorbimento dei maggiori costi attraverso un deciso contenimento se non anche una riduzione dei salari reali.
Queste sono state le ragioni sostanziali per cui non siamo stati in grado di controllare l'inflazione e comprimerla a quei livelli per cui diventava accettabile vivere con essa. L'inflazione è stata certamente pagata dai lavoratori, ma essa non giova neppure alle imprese. Le crisi non si superano imponendo assurde rigidità, i nuovi modelli di sviluppo non si realizzano bruciando i capitali delle imprese, i risparmi delle famiglie e bloccando le possibilità di rinnovamento tecnologico. La realtà è che in questi ultimi anni si è avuta una enorme distruzione di capitali accumulati nel decenni precedenti e che rappresentavano le riserve normali ed indispensabili per una economia di sviluppo.
La riprova finale è che oggi la congiuntura è in progresso in quasi tutto il mondo, ma in Italia non la si può sfruttare per una nuova fase di rilancio. Infatti i vincoli sono aumentati in modo tale che le crisi tendono a succedersi l'una all'altra in modo talmente ravvicinato che è vicino il momento in cui vivremo in condizioni di crisi permanente. Il Paese dovrà allora rinunciare definitivamente allo sviluppo e alla soluzione dei suoi squilibri storici. E' la strada verso l'autarchia, che qualcuno forse guarda con interesse, che noi imprenditori respingiamo con risolutezza.
Un programma generale di risanamento e ricostruzione dell'economia non può farsi nell'astratto. Esso deve tener conto in ogni momento della realtà sociale e politica e della inevitabilità di giungere a progetti attuabili, che tengano cioè conto dell'ambiente tecnico,perché economico, commerciale e finanziario nel quale si deve operare e della quantità di consenso necessario. Ogni programma deve essere concentrato a creare intorno all'impresa le condizioni necessarie perché essa diventi nuovamente centro di produzione e di distribuzione di risorse finalizzate agli obiettivi sociali e politici del paese.

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