§ Note di viaggio nel Sud

Attraverso il Salento




Eloisa Malagoli



Le continue trasformazioni cui è stata sottoposta la più tipica penisola italiana minacciano di degradare i superstiti aspetti originali, che invece vanno difesi e tutelati quadro di un programma di valorizzazione che impegni tutte le forze intellettuali e politiche di questa terra ricca di tradizioni e di fermenti creativi.

Sembra una prosecuzione delle Murge, e in realtà è una penisola frastagliata, particolare, a se stante, fortemente personalizzata. Il Salento è una delle più tipiche aree d'Italia, inconfondibile per le sue "serre", dorsali allungate e sassose, che non superano mai i duecento metri d'altitudine, per le coste sabbiose o rocciose estremamente variabili, per la vegetazione mediterranea che accomuna al lentisco. all'alloro e all'olivastro, colture introdotte dall'uomo, come il pino e il ficodindia. I boschi della penisola salentina, che nel secolo scorso erano estesi per oltre centomila ettari, hanno subìto, (per effetto delle lotte al banditismo, per le violente trasformazioni agrarie, per gli incendi) una costante diminuzione: oggi raggiungono appena i trecento ettari di superficie! Qua e là qualche quercia maestosa testimonia ancora di un passato glorioso, dello splendore di selve che coronavano antichi borghi contadini: si tratta di sughere cospicue, come quelle di Turano; o di vallonee, come quello di Tricase e Cellino San Marco; o di lecci secolari, come quelli presso Maglie e Melendugno; o infine di querce spinose, a portamento arboreo, come quelle dei boschetti superstiti sulla costa adriatica, presso Otranto.
Come la situazione forestale, anche quella animale ha subìto una lenta, costante degradazione, per le radicali alterazioni provocate dall'uomo. Scomparsi ormai i daini, i cervi, i caprioli, i lupi e le linci di cui narrano gli storici classici, non restano che le celebri lepri salentine, di una specie assai poco esigente e meravigliosamente adattata all'aridità dell'ambiente. Sopravvivono volpi, tassi e istrici, che popolano i pochi angoli integri. Più numerose le specie alate, con storni, fringuelli, passeri, cardellini, rondini, occhiocotti, sterpazzole, allodole, magnanine, ballerine, quaglie e tortore. Ad avere un pò fortuna, nei periodi dei passi migratori, è ancora possibile scoprire stagliarsi nel cielo i "triangoli" di aironi, pellicani, gallinelle di mare, ibis, folaghe. Ricordo che palmipedi e trampolieri erano numerosi, nelle aree dei Laghi Alimini, fino a una ventina di anni fa. Su quei laghi ci sono tornato, en passant, quest'estate, di ritorno dalla Grecia.
Lo scempio non è ancora totale, ma quale cambiamento! Spariti i macchioni che punteggiavano l'intera fascia; svanita l'aria, perduto il clima selvatico di un tempo, cessata la pace che qui si veniva a cercare dopo un viaggio cominciato all'alba, e che finiva sempre con le ultime ore di sole, quando l'ultima luce veniva dall'altro mare, lo Jonio. Mi dicono che una caccia indiscriminata, spietata, ha "tagliato" i passi stagionali, quelli che incantavano i ragazzi della mia generazione, che ci facevano sognare avventure in paesi lontani, in paradisi salgariani.
Come per il pesce: le tonnare sono sparite, qui e nel golfo di Taranto, di fronte a Gallipoli e di fronte a Porto Cesareo. I "bombardieri" hanno creato il deserto in fondo al mare. Dieci, forse dodici anni fa, a Porto Cesareo vidi per la prima volta cos'era una "bomba", un involucro di due-tre chili di esplosivo, me lo fece toccare un finanziere, dentro la torre che si alza presso lo "Scoglio". La sera mi presentarono un bombardiere, non aveva più braccia, parlando gesticolava con gli occhi. A Porto Cesareo ci sono gli "ovadi", le fosse in cui le triglie depongono milioni di uova. Tritolo e reti a strascico hanno -arato tutto. I giapponesi coltivano i fondali marini, vi creano habitat ideali, immettono cefalame, creano vastissime "sea-farms", fattorie sottomarine che ripopolano i loro mari. La pesca è una "via alimentare" che nelle acque salentine ormai è poco meno di un vago ricordo. La caccia non è una via alimentare, è uno sport da sterminio che non ha lasciato più niente in vita, ormai si spara anche agli uccelli-mosca.
Anche sullo Jonio ci sono acquitrini e canneti, dalle parti di Ugento: e qui è ancora possibile osservare stagionalmente stormi di aironi, anatre selvatiche e folaghe. Intorno al Capo di Santa Maria di Leuca, tra le bellissime insenature, le rade, le cale, le rocce calcaree che rifrangono il sole, le scogliere a picco, il mare resta pescoso, tutto è meglio conservato, la mano dell'uomo ha pesato di meno.
Leuca al tramonto si stempera in una gamma di pastelli, l'aria è tenera, il mare soltanto è d'un azzurro assoluto, striato di celeste meno intenso, con qualche frangia verde sotto la costa. Miracoli di vele bianche sul filo dell'orizzonte. Poi il cielo si fa viola, dalla serra su cui dominano il Santuario e il faro lo sguardo si ferma sul paese bianco che affonda nelle prime ombre, segnato da mille lampadine appena accese. Le finestre si chiudono mentre sale la brezza di terra, il mare si increspa appena. Leuca, "la bianca", si predispone al sonno sotto il costone morenico, antica ninfa delle acque.
L'alba che vien su a far trasparenti i paesi disseminati tra le campagne del "Capo" libera gli alberi da una calzamaglia di nebbia, la serena, come la chiamano ancora qui. E' l'umidità che ha dato vita, per millenni, alle colture in una terra che ebbe un solo fiume, all'aurora del mondo, e per pudore ne fece un fiume sotterraneo.
Ancora oggi, forse, quel fiume non è del tutto inaridito. Lungo le coste pullulano migliaia di sorgenti, è acqua dolce che sale dal profondo grembo carsico, alla scoperta della luce del sole. Come ha scritto un salentino, qualche tempo fa, questa terra è uno "scrigno d'acque". All'interno, invece, si beve la buona acqua dei pozzi, cresciuta da vene e polle che le piogge alimentano nei soli due mesi annui in cui cadono, qui.
I paesi dell'interno: sono a vista d'occhio, separati da campagne i cui ordinamenti sono straordinariamente perfetti, segnati da stupende masserie, (molte delle quali ancora oggi presentano muri di cinta, rudimentali fortificazioni e difese contro le insidie che venivano dal mare, o dai briganti della terraferma). Argento degli olivi, a perdita d'occhio. E a perdita d'occhio le superfici ricciute dei vigneti. Muri a secco dividono i campi, "caseddhi" sono le microscopiche dimore a tronco di cono in cui i contadini trovavano rifugio dalla canicola e dai fulminei temporali. Qui è la terra dei menhir, che sono il segno della civiltà dei nostri padri. Qui è la terra dei dolmen. Qui, a Patù, una misteriosa costruzione, il "Centopietre", ci rammenta che fummo grandi quando altrove si usciva appena dalle tenebre.
Da paese a paese il salto può essere lungo. Mutano dialetti, usi e costumi. Calimera saluta in greco il sole che batte anche sui templi d'Atene. La guglia Orsini, di Soleto, svetta su una larga conca che fu un lugubre deserto. Martano, Sternatia, Castrignano chiudono la corona di villaggi che si chiamarono orgogliosamente "Grecia salentina". Ci sono case con le finestrelle quadrate sui giardini a limoni e fiori. Ricordano le aree "greganiche" di Calabria: anche qui il greco è lingua materna, dirimpettaie sono le comunità albanesi che invece, nel Salento, sono confinate a nord-ovest, sotto la fascia tarantina. Telai e acqua nelle anfore: c'è in tutto un sapore antico, fresco, pulito. A settembre, odor di pane croccante e lattice di fichi melanzani, verdi-viola, oblunghi, scoccanti come i seni di un'adolescente. Brocche di rame e di terracotta, luttuosi vestiti neri nei cortili. E di contro giovani liberi da remoti tabù, vanno con le trigonometrie sottobraccio, parlano anche un altro linguaggio. Chi tirerà su le colture, quando i vecchi saranno morti? Chi amerà la terra, chi chiamerà per nome gli ,alberi e gli animali, chi scalerà le serre a spiare i crepuscoli? Ora cresce l'irrigazione, i campi son sempre fazzoletti, i giovani emigrano dalle campagne e dai paesi, sono i vecchi che si informano sulle variazioni dei cambi di valuta, crescono case faraoniche, d'una bruttezza esemplare. Più grande e la piramide, peggiore fu il faraone, dicevano gli egizi. Queste brutte case sono i simboli di una sbagliata rivincita sociale, di una vendetta covata per secoli nei, tuguri, che ora si esprime con dimore mostruose, con un'architettura da basso macello. Le periferie dei paesi sono ormai serragli aberranti, promiscui funerei, di fronte ai quali risalta ancora più incantatrice, più struggente se si vuole, quell'"architettura senza architetti" che ci ha consegnato - e noi che non sappiamo tutelarli! -esempi inimitabili di urbanistica spontanea.
Da Ugento a Santa Caterina di Nardò, scogliere e sabbie, rosari di marine, città in bilico sull'acqua, miracoli di torri di vedetta. Recenti boschi - a pino laricio, basso e torvo, ma resistente all'azione delle lavine e ai venti ubriachi di salsedini - scendono da brevi omeri collinari fino alle strade litoranee.
"Kalè polis", Gallipoli bella, è nel centro, su un mare trasparente. Gallipoli dei miei primi anni, quando vi immigravo dalla strada bianca e polverosa, precipite, della sua Serra, nobile rifugio di quercioli e lecci nani. Andavo - dopo due ore di pedalate - a veder partire le tonnare, alle "Fontanelle". Ma il mare che mi è rimasto sulla pelle è quello sotto il bastione che fronteggia la bassa catena di isolotti, al piede del rione Purità. Qui batteva il, cuore degli anni verdi, qui pulsava la vita del vecchio, meraviglioso borgo marinaro, alle radici della chiesa del Buon Ladrone, che ci guardava sotto l'ombrello degli affreschi dello Zimbalo con i suoi occhi buoni, grandi come l'oceano, antichi come le rughe dei vecchi pescatori di polpi e di saraghi, sfolgoranti come i bagliori delle lampare.
Alla Purità si sfociava dopo aver percorso un labirinto di stradine con le finestre a portata di stretta di mano, lastricate, pendenti verso la costa. Ragazzini nudi e odor di "burrumballa", argentini impastati nella farina e fritti, zerri marinati, vope arrostite con i tralci di vite. I "camerini" sul mare erano palafitticoli, si scendeva in acqua dalle botole, si risaliva dalle botole, si usciva per la passerella, il sole a picco sulla città vecchia, agli angoli montagne di cocomeri, nelle brevi piazzette cattedrali di nasse. Pomeriggi al calor bianco. Ho visto strade deserte così solo a Maiorca, nelle chiare mattine d'inverno, dentro ai vichi con i porticati bianchi, con le porte chiuse, con le nicchie dei santi sui muri butterati. Ora, a Gallipoli, la fontana greca è una sentinella impagliata. L'altra parte della città, quella del turismo e del reddito, pulsa oltre il ponte che àncora l'antica isola, oltre il lungo corso, anzi è nel corso, tra il grattacielo di vetro e acciaio e il Lido. La vecchia città si chiude in se stessa, con gramaglie di reti e sugheri, difesa dai bastioni grigi del castello, che si specchiano sul porto delle canne.
(1-continua)


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