Saggista
e storiografo, nato a Maglie e ben presto emigrato a Roma, ove, compiti
gli studi, definitivamente si stabilì, Alfredo De Donno è
autore, fra l'altro, dei volumi: Ingresso al 900; Ugo Foscolo; L'Italia
dal 1870 al 1944; Le epoche storiche; La democrazia in ogni tempo; Garibaldi
eroe del mondo; Solitudine di Pirandello; I Re d'Italia; Gli italiani
del Risorgimento.
Centoquindici
anni di storia nazionale sono trascorsi con lampi di pensiero e fremiti
di azione anche nel dolce Salento. Una delle pagine del più
puro romanticismo politico, sin dagli albori del Risorgimento italiano
l'hanno scritta i Salentini con amore e slancio idealistico, pari
a quelli di altre regioni della penisola politicamente divisa, ma
sempre moralmente unita. E gli internazionalisti Ferdinando Lassalle
e Federico Engels, l'amico e corrispondente del pugliese Carlo Cafiero,
hanno fervidamente reso omaggio all'Italia ancora divisa, come a un
capolavoro inimitabile di unità geofisica ed etnica. Il sentimento
e l'impulso unitario in Italia partono dal Sud: Guglielmo Pepe, Giacomo
Durando, i Fratelli Bandiera, Carlo Pisacane. E i Salentini, li troviamo
schierati in prima fila nella battaglia risorgimentale, mentre si
polverizza il fatiscente regime borbonico sotto il piccone garibaldino.
Le pie signore leccesi, che si recano in Duomo ad ascoltare della
buona musica, come ai bei tempi del vescovo monsignor Trama, non degnano
forse nemmeno di uno sguardo il monumento dell'austero mazziniano
Giuseppe Libertini, e può darsi che esse non sappiano neanche
chi sia stato. Ma sanno certamente che fu un illustre concittadino,
degno di essere onorato, anche se ignorano che fu un seminatore, un
pioniere della coscienza unitaria nazionale, corrispondente di Mazzini,
il "fanatico dell'Unità", e talvolta suo consigliere
ascoltato. Ne fa fede il copioso epistolario mazziniano.
Perché "romanticismo"? Scriviamolo non in senso limitativo,
ma estensivo. Nel senso cioé più esatto di idealismo
politico, da contrapporre al più gretto significato edonistico
che l'invadente e prepotente materialismo storico, o determinismo
economico che sia, porta in grembo. I pionieri e propulsori del Risorgimento
unitario erano appunto degli idealisti, e, nel significato attuale,
dei romantici. L'Unità d'Italia è figlia del romanticismo
idealistico, perché non si sarebbe fatta mai con la logica
degli interessi materiali, dei profitti economici, che positivamente
valutati, avrebbero dovuto consigliare la divisione politica. Così
la Lombardia e il Veneto avrebbero prosperato con l'amministrazione
austriaca; la Sicilia avrebbe potuto ampliare ed irrobustire i suoi
traffici marittimi con l'Inghilterra, che la teneva sempre d'occhio;
e la Sardegna, unita alla Corsica, sarebbe entrata trionfalmente nella
sfera commerciale francese. Questa la logica degli "affari".
Quella degli ideali invece era un'altra. Quella appunto che indusse
i pionieri salentini a militare nel mazzinianesimo unitario. E per
rilevare che il sentimento unitario dei salentini parte da molto lontano,
ricorderemo che la geografia ha alimentato l'unità spirituale,
perché il Salento si distende sulla via che univa ed unisce
Roma all'antico Ellesponto: una via che riprese vittoriosamente la
Repubblica di Venezia.
Ricorderemo cioè che Rudiae, (odierna Lecce e dintorni), dette
i natali a Quinto Ennio, il primo vero poeta epico della Roma repubblicana,
predecessore del forbito e malioso Virgilio. Il salentino Ennio, dunque,
con maschio estro poetico dette l'avvio all'epica latina, con senso
evidentemente unitario di una civiltà artistica, che seguiva'
l'unità politica.
Ed egli servì Roma non solo col braccio quando combattè
con Scipione Africano nella seconda guerra punica, ma anche con la
mente, quando rientrato in Roma si dedicò all'insegnamento
della lingua greca, mentre si stringeva di più l'anello spirituale
fra Atene e Roma. Questa unità culturale, che poi divenne coscienza
politica, i Salentini l'hanno custodita come fuoco sacro, riaccesosi
dopo con vivide fiammate nelle prime lotte risorgimentali.
Un fuoco dunque che col passar dei secoli non si era spento mai. Del
resto, Vilfredo Pareto, grande sociologo e geniale economista, ne
era convinto: gli uomini, e diciamo pure i popoli, agiscono per l'impulso
dei sentimenti, non della ragione. L'economia dunque non c'entra.
E allora, leggendo nelle pagine calde della storia nazionale, rileviamo
che le lotte unitarie palpitano di sentimento, con lo spirito di sacrificio
dei salentini Duca di Castromediano ed il magistrato Oronzio De Donno.
Mi raccontava la cara nonna materna, che da giovane aveva raccomandato
a un suo garzone di tenere ben celato in un carro carico di paglia
il fuggiasco don Oronzio De Donno, per sottrarlo ai gendarmi borbonici
che lo cercavano perché "era contrario al governo".
Nelle cronache del primo Parlamento italiano troviamo registrato il
nome del De Donno, quale rappresentante del collegio di Maglie, dove
era stato eletto con 709 voti, avendo avuto a competitore Liborio
Romano, soccombente con 135 voti. Don Liborio invece fu eletto nel
collegio di Tricase con 435 voti, avendo come competitore Giuseppe
Pisanelli. Giuseppe Libertini non fu eletto a Lecce, pur avendo avuto
362 voti, né a campi Salentina che gli preferì il duca
Sigismondo Castromediano: 311 voti all'uno, e 460 all'altro.
Come si vede, abbiamo scritto grossi nomi, non solo per le cronache
parlamentari locali, ma per la storia nazionale. Quello di Giuseppe
Pisanelli, per esempio, ha un particolare rilievo per essere stato
ministro di Grazia e Giustizia con i presidenti Farini e Minghetti,
e il primo codice civile del nuovo Regno unitario porta la sua firma.
Ma Petrucelli della Gattina nei suoi famosi Moribondi scarnifica il
Pisanelli come gli altri, forse peggio degli altri, forse come rappresaglia
di un amore non corrisposto. Un libro che mescola l'arguzia con la
maldicenza, e che sembra scritto da un uomo alticcio; ma, si sa, in
vino veritas. Diamone un piccolo assaggio: "Pisanelli aveva la
stoffa per essere un uomo distinto, se non un uomo di genio; la parola
facile, la mente svelta, la persona attraente, il carattere ameno
e pieghevole. Un'ambizione precoce, eccessiva, avida, ha tutto precipitato.
I liberali lo respingono; i conservatori ne diffidano; i consorti
non lo risparmiano ...".Tutto sommato, a noi sembra una persona
per bene, anche col presentimento del trasformismo di stoffa depretisiana.
Con Liborio Romano, nato a Patù, il discorso però non
cambia, pur volendolo ritenere spiritualmente estraneo al romanticismo
politico che ci sta a cuore. Egli non era certo un cospiratore della
rivoluzione unitaria, come i Libertini, De Donno e Castromediano;
ma un convinto e leale servitore della legalità costituzionale,
e perciò della conciliazione fra monarchia regnante e libertà,
e lo fu senza dubbio. Quando il Borbone fedifrago della Costituzione
giurata stava per cedere alla reazione, il ministro dell'Interno Liborio
Romano voltò le spalle a quella restaurazione, ed accettò
di restare al suo posto col sopraggiunto dittatore Garibaldi. Per
qualche tempo don Liborio fu quindi severamente giudicato come il
Talleyrand italiano. Si deve però ammettere che il "versipelle"
Talleyrand salvò la Francia, perché per merito suo,
cessando di essere la Francia napoleonica, restò sempre la
Francia che vinse la pace dopo aver perduto la guerra. Liborio Romano,
in proporzioni più piccole, fece altrettanto. Nelle sue memorie,
pubblicate postume e fuori commercio dai suoi familiari, ci ha narrato
che tenne testa all'ambasciatore francese, patrocinatore dell'arrestato
sacerdote Sauclières per sobillazione, con queste parole: "
... Con un certo malumore mi domandò s'io volevo rinnovare
il 193. (La sottolineatura è nel testo). Gli risposi ch'io
volevo salvare il paese dalle cospirazioni, qualunque fosse il luogo
da cui traessero origine". Non un reazionario, dunque, ma un
ortodosso legalitario. Anche contro i legittimisti borbonici ben decisi
a far scorrere il sangue. Non è merito da poco. Se il vincitore
Garibaldi gli accordò piena fiducia, era segno che se la meritava.
Un'uguale fiducia invece non gli dimostrò Cavour, che col suo
esasperato piemontesismo centralizzatore pose il germe funesto di
ciò che divenne la grossa questione meridionale. E fu un male,
per il Mezzogiorno e per l'Italia. Chi sa quali frutti fecondi sarebbero
nati dalla esperienza e saggezza amministrativa di Liborio Romano
e dallo slancio riformatore della dittatura garibaldina nel 1860 a
Napoli, se la ottusa incomprensione degli impreparati governanti piemontesi
non lo avesse impedito.
Il nobilissimo ma sfortunato romanticismo politico riprese più
tardi a splendere nel Salento con gli epigoni mazziniani, riamalgamati
da un vago liberalradicalismo. Fra gli aderenti al Patto di Roma del
13 maggio 1890 troviamo il nome di Francesco Rubichi, la inobliabile
sirena del foro leccese, che un bel giorno dové optare per
l'arringo professionale, rinunziando alla deputazione, non ancora
retribuita. I tempi del fruttuoso carrierismo politico erano lontani.
Quello di cui ci occupiamo era invece il tempo dei seminatori, che
non sempre sopravvivono per raccogliere.
Nel filone d'oro del romanticismo politico salentino non poteva mancare
un illustre artista "impegnato", come si dice ora: il pittore
Gioacchino Toma, di Galatina. Ma non vogliamo disturbare la digestione
dei suoi attuali colleghi, se pensiamo che il quadro dei "Prigionieri
di Aspromonte", e "La ruota dell'Annunziata", possono
testimoniare l'"impegno" patriottico e sociale di un pittore,
oggi certamente esaltato come un valoroso artista militante.
Un raro esemplare di modestia e di intrinseco valore professionale
lo troviamo in Antonio Vallone, ingegnere galatinese e deputato repubblicano
per il collegio di Maglie.
Il fatto che egli fosse allora un uomo politico eterodosso, eletto
da una popolazione prevalentemente monarchica, è il migliore
attestato di stima di un corpo elettorale per un uomo di cui si ignorano
le idee: miracoli del collegio uninominale. Antonio Vallone il suo
ideale politico se lo teneva per sé, non faceva "propaganda".
Un sentimento custodito quasi pudicamente nel segreto del suo cuore.
Un giorno mi recai nella sua Galatina per chiedergli di contribuire
alla raccolta di fondi destinati a finanziare la spedizione garibaldina
nelle Argonne, alla vigilia della prima guerra mondiale, e preludio
all'ultima guerra irredentistica italiana. Il suo volto rubicondo
e bonario si illuminò di un'intima felicità, e fu come
sempre generoso. Mi confidò anche con nostalgica discrezione
che, essendo collega di ingegneria all'Università di Roma di
Guglielmo Oberdan, era stato lieto di contribuire alle spese di viaggio,
dell'ultimo fatale viaggio, del martire triestino. E così possiamo
notare che in quel memorando episodio, nel quale si scatenò
la rabbiosa invettiva di Giosué Carducci, anche il romanticismo
politico salentino ebbe la sua piccola parte.
Una rilevante partecipazione allo stesso movimento idealistico, per
ricchezza di pensiero e peso morale, la dette da ultimo Luigi Corvaglia
da Melissano. La breve commossa commemorazione pronunziata da Pantaleo
Ingusci - che è un quasi solitario mazziniano di Nardò
- il giorno della scomparsa dell'illustre uomo, non basta. Noi salentini,
noi italiani tutti, abbiamo un debito morale con l'insigne pensatore,
che ci ha lasciato un pingue patrimonio culturale, in gran parte ancora
inedito. Per il valore intrinseco dell'opera del nostro grande Gigi,
potremmo forse ripetere la pittoresca definizione che Vincenzo Monti
ebbe per quella di G. B. Vico: " Irta di rupi e gravida di diamanti".
Un'opera che doveva fatalmente condannare il pensatore di Melissano
alla solitudine ed alla incomprensione; ma anche incitare i posteri,
soprattutto i giovani, a scavare nella sua miniera. Parlava di Mazzini
a Lecce, e diceva: "Egli gittava morti. Continuò a gittar
morti su morti per creare prima, e quando l'ebbe creata, per alimentare
la logica della disperazione che fa gli eroi. Nove decimi della storia
del mondo nel suo primo farsi apparve sempre insensata ai filistei.
Ma tale non appare invece nella trama della logica demiurgica, degli
eroi e dei santi, o in quella di Cristo che tra Dio e gli uomini gittava
se stesso". Una concentrazione di pensiero che per la sua stringata
densità non può sciogliersi con agile comunicativa,
e sembra talvolta oscura per il suo stile diremo di timbro boviano.
Ecco le rupi. Poi il suo discorso si snoda in più chiara e
sintetica illuminazione. "Ma questo moto di ritorni perché?
Perché si fa sempre più pauroso il processo di meccanizzazione
dello uomo. Il Mazzini l'aveva visto con occhio savonaroliano e, dato
l'allarme, non si era quietato più, bandendo la crociata contro
quello che gli appariva il Leviathano, il mostro apocalittico della
moderna civiltà, la materializzazione progressiva della coscienza
umana, l'impoverimento graduale del sentimento religioso, conseguente
a quella, ch'Egli con formula usata anche dal Prudhon e ripresa poi
dal De Unamuno, chiama l'agonia del Cristianesimo." Ecco i diamanti.
Luigi Corvaglia era nato a Melissano nel 1892, ed è immaturamente
scomparso nel 1966, quando forse i Salentini avrebbero potuto trarlo
dalla sua solitudine di studioso e di moralista della vita pubblica,
dopo una improvvisa e fugace apparizione nelle prime illusorie speranze
dell'Italia repubblicana. Nel '14 aveva conseguito la laurea in Giurisprudenza
a Pisa, e partecipò immediatamente alle agitazioni irredentistiche
per l'intervento italiano, col cuore di M. R. Imbriani, nella "ultima
guerra del Risorgimento", come la definirono gli idealisti di
sinistra, i soliti "romantici", insomma. E fece la guerra
da volontario, finché non fu nominato giudice militare a Padula.
Nel '21 si laureò in Filosofia a Torino. I due titoli accademici
inquadravano la singolare personalità di un giureconsulto arricchito
da una geniale mente speculativa. Lo dimostrò quando con la
sua severa disciplina di indagatore scoprì le fonti dell'eresiarca
Giulio Cesare Vanini nel pensiero di Cesare Scaligero e di Cesare
Raho, che nel 1500 dettero lustro al breve tratto di terra salentina,
fra Taurisano ed Alessano. Se ci mettiamo Corvaglia, possiamo dire
che quel pugno di terra del Capo di Leuca contiene uno scrigno quasi
ignoto di filosofia militante.
Ma non è tutto. Luigi Corvaglia, che rivedeva le bucce alla
scarsa originalità del povero arso vivo di Tolosa, mentre il
suo martirio testimoniava la immortalità del libero pensiero,
Luigi Corvaglia, diciamo, si è dedicato anche (ed egli vi ci
teneva di più) ad una copiosa opera letteraria eclettica di
indubbia originalità. Un romanzo, "Finibusterre",
del '36, che merita di essere attentamente riletto, e le commedie
"La casa di Seneca", "Rondini", "Tantalo",
"Santa Teresa ed Olonzo", per noi di sicura validità
costruttiva, poeticamente ispirata.
Ma il suo vero atto di fede nel romanticismo politico, lo abbiamo
già accennato, Luigi Corvaglia lo ha celebrato come un rito
religioso con Mazzini. Lo predilesse nei primi studi giovanili, lo
penetrò e approfondì con soggettiva interpretazione
critica e ricreatrice nell'età matura. Ritrovò poi intatto
il "sempre vivo Mazzini" quando crollò la facciata
della monarchia senza che abbattessero i muri maestri. Disse Corvaglia
nelle speranze che si accesero e le illusioni che divamparono fra
il 1943 e il '46, con l'amarezza e il disappunto di una fede tradita:
"L'Italia della democrazia laica è ancor fra i miti, il
Mazzini ancor remoto negli spazi siderali. Ma il fallimento della
centenaria aspettazione non spegne in noi la fede: l'ora del Mazzini
verrà".
Non potrà non venire. Lo stesso Corvaglia lo ha dimostrato.
Mazzini è scomodo, ma invincibile. Chi vuole riformare le anacronistiche
strutture della società nazionale, deve rifarsi a Mazzini.
Famiglia, Patria, Umanità. La Giustizia sociale è nella
Libertà. Corvaglia lo sapeva: il romanticismo politico ci porta
inevitabilmente alle amare delusioni. Ma che importa? Di mutevole
ed effimero non c'è che la realtà; i sogni invece sono
immortali, perché i sogni di oggi saranno la realtà
di domani. Questa è la legge che governa il romanticismo politico,
che come sappiamo ha sprigionato raggi vividissimi nella terra del
Salento. I giovani, caldi di cuore e vivi di pensiero, nati in questa
terra, che ha splenditamente e idealmente sempre unite Atene e Roma,
devono sentirsi orgogliosi di questa responsabilità storica.
E quando si recheranno nel cimitero campestre di Melissano per rendere
omaggio alla tomba di Luigi Corvaglia, potranno dire alla Sua Ombra
mestamente pensosa: "Tu hai parlato per tutti noi; per coloro
che sono venuti dopo di Te, e per coloro che verranno dopo di noi".
Dal romanzo
"FINIBUSTERRE"
Il Salento
di Corvaglia
A mezzanotte la
barca era alla Rìstola e doppiava il Capo, presso la torre
dell'Omomorto. Nel rupestre disposto ad arco, s'apriva una rada che
alcune forre attraversavano per lungo slargandola a riva in banchi
di sabbia. Più innanzi la roccia, rifattasi massiccia, affondava
le cuspidi irte inaccessibili del Méliso nel mare, mentre a
nord risaliva sino a raggiungere alcuni cupi edifici sulla cima di
un promontorio.
"Santa Maria di Finibusterre!" disse il Mazzeo con riverenza
...
Ora giravamo il Méliso. Il promontorio si faceva inaccessibile.
Lungo il pendio, la pietraia rotolata disponevasi senza legge nell'equilibrio
più instabile e nella minacciosa animazione di altre frane
imminenti. A mezzacosta, un colaticcio ferruginoso, convogliato dalla
pioggia lungo la bocca d'alcune spelonche, si spandeva tutt'intorno
e sotto la luce lunare parea maculasse di sanguigno quella calvizie
cinerea di rovine, che alcuni ciuffi di seccume rompevan qua e là
in chiazze d'ombra ...
All'altezza della grotta d'Ortocupa. . . Le pareti del lido scendevano
nel mare come le mura di una prigione: alte, lisce, a grandi strati
sovrapposti, simili a costruzioni di ciclopi. Il ferrigno della roccia
aveva qua e là toni caldi, violacei, con dorature, picchiettamenti
multicolori, levigati sino a parer marmorei. Ma subito si rifaceva
cinereo e aspro. Al livello del mare tornava ad ammorbidirsi nel madido
di mille toni celest'azzurri. Sullo specchio dell'acqua, che le prime
luci dell'alba facevan lattiginoso, le sassifraghe, pendenti dalle
commessure, prestavano l'illusione della loro ombra distesa.
Dopo la Serra di Tiggiano s'era levata la brezza. Si poté issar
la vela . . .
Un profilo lattiginoso in alto in fondo all'orizzonte. Il bianco s'avvivava
vagamente d'iridescenze, scompariva vaporando entro banchi di nebbia,
poi emergeva più innanzi svolgendosi come trina fumosa da conche
madreperlacee.
"Le montagne d'Albania", disse il Mazzeo, accennando.
L'opale del profilo si stemperava in una progressione di teneri: il
verde, fuso col roseo, s'attenuava nel niveo, riappariva a contorno
del viola ...
"Ora si sorpassa Plane", disse il Barone, accennando al
verde che riappariva nella conca di Tricase...
La costa, rifattasi impervia, risaliva fino alla Serra del Mito, mostrando
i ruderi di un calogerato: "Anche le città. . . Eran tante
e grandi! Ora, invece!. . ." Scrollò le spalle, poi volse
lo sguardo più innanzi e additando: "Anche quella lassù,
quale destino!"
La roccia arsa risaliva con calvi mammellamenti fra due zone d'ossame
ciottoloso. A destra, su di un poggio, pochi abituri s'appollaiavano
entro una cinta di fortificazioni in rovina.
"Castro! .. . Rocca di Roma! . . ." disse. Poi aggiunse
piamente: "E di Cristo! Ecco che ne resta: ossai! E questa pena
che ci prende, senza una speranza che queste cose abbiano mai più
a risorgere! . . ."
La grotta della Palombara, misterioso labirinto. Le Romanelle, un
porto in miniatura. Lassù c'era una sentinella fedele che crollava
restando al suo posto: la torre di Miggiano! Le polle d'acqua delle
Striare s'inseguivano fin nel mare al largo ... Venne una ventata
calda di zolfo . . . Santa Cesarea! A Porto Badisco la vela tornò
ad afflosciarsi. Dopo, Sant'Emiliano, "Ecco la torre del Serpe.
Di là c'è Otranto!" "Siamo salvi!" ...
"... Noi del Capo", egli diceva, "tutti una razza:
i Salentini". Animava così in larve il rapsodico della
sua cultura: archeologia, Bibbia, miti, ilozoismi che potevan coesistere
perché composti in immagini: 'T Signore, per dar forma all'anima
salentina, scelse la pietra. Dalla roccia veniamo e vi torniamo".
Indicava a prova le brecce ossifere di cui era cosparso il suolo.
Poi la sua natura entusiastica sconfinava nel simbolismo: "Pietra
siamo, pietra viva che resiste all'acciaio, ma, quando I' hai segnata,
conserva eterna l'impronta della tua passione. Se la percuoti, sprizza
scintille, si scheggia, taglia; arsa, si la calce candida, impasta,
lega. E' cote che ti logora, e t'affina. Limitare sacro della tua
casa, macina il tuo pane quotidiano ... E' tavola d'altare. Il rovaio
la fende, perché sua matrice è il sole!"